Quando si ha un figlio, si ha il desiderio di conservare in uno scatto o in un video le tappe fondamentali del suo percorso di crescita, ma anche i piccoli ed essenziali momenti di quotidianità. Sempre più spesso, però, queste testimonianze digitali non si limitano a creare album fotografici o archivi da rispolverare nelle riunioni tra parenti, ma diventano la base per un vero e proprio lavoro. Lavoro nel quale i minori sono, loro malgrado, protagonisti. Il fenomeno dello sharenting, neologismo nato dall’unione dei termini share (“condividere”) e parenting (genitorialità) è oramai dilagante sulle piattaforme social più note.
La sovraesposizione mediatica dei bambini, dalle stories di Instagram ai TikTok, riguarda genitori di qualsiasi età, estrazione sociale e provenienza. Assume, però, connotazioni più sinistre addentrandosi nel complesso e narcisistico universo degli influencer. Nulla da dire riguardo la professione, naturalmente. Si tratta di una realtà accreditata alla pari di altri new jobs. Ciò che lascia perplessi, tuttavia, è l’impiego della propria prole, utilizzata per rendere le sponsorizzazioni di questo o quel prodotto più accattivanti e “domestiche”. Un modo infallibile per ottenere l’attenzione e l’apprezzamento di una fetta importantissima della società, la famiglia.
Sharenting: la legge dell’Illinois
La condivisione a scopo di lucro di contenuti riguardanti i propri figli è un’attività spesso molto remunerativa, ma, negli ultimi tempi, sembra essere finita fuori controllo. Proprio per questo, in Illinois, dal primo luglio 2024 è entrato in vigore un emendamento alla legge sul lavoro minorile, approvato nel 2023. La normativa riconosce il valore economico della presenza dei bambini sui social media dei genitori o dei tutori. Stabilisce, inoltre, che i minori di 16 anni debbano ricevere il 15% dei guadagni lordi se appaiono in almeno il 30% dei contenuti online di un influencer “in casa”. Guadagni che andranno versati in un conto fiduciario, garanzia di tutela finanziaria.
Il provvedimento dello Stato del Midwest riprende in parte il famoso Coogan Act della California, che fece scuola nel 1939 in materia di lavoro infantile nel mondo dello spettacolo. All’origine del contenzioso, all’epoca, vi fu Jackie Coogan, un baby attore portato alla ribalta negli anni Venti. Coogan, che aveva condivis la scena con Charlie Chaplin ne Il Monello, aveva visto dilapidato il proprio patrimonio dai genitori. Al termine di un’accesa battaglia legale, lo Stato aveva decretato che il 15% dei guadagni di un minore nell’industria dello showbiz dovesse essere depositato in un conto bloccato e intestato al giovane, da lui accessibile al raggiungimento della maggiore età.
Una sovraesposizione pericolosa
La legge del 2023 fa uno scatto in più rispetto alla precedente, e concede al minore il diritto di chiedere la rimozione dei contenuti che li ritraggono, qualora non siano d’accordo con la loro presenza in rete. Nel caso in cui padre, madre o adulto responsabile si rifiutino di assecondare la richiesta, il giovane ha diritto di intentare una causa. Si tratta di una chiara e netta presa di posizione degli organi legislativi e governativi nei confronti di un presente in cui si rincorre la popolarità a tutti i costi, anche quando a “farne le spese” sono l’immagine e la sicurezza di un ragazzino inconsapevole. Una vera e propria boccata d’aria e un passo concreto verso la salvaguardia della privacy.
Per quanto, senza alcun dubbio, blogger e content creator non abbiano cattive intenzioni, coinvolgendo i propri pargoli nelle loro televendite online o nei cosiddetti “family vlog”. Quello che però, purtroppo, non viene calcolato, è il rischio a cui un bimbo viene esposto, dopo aver. gettato nel web il suo viso. furti di identità, adescamenti da parte di malintenzionati, fino ad arrivare a casi di pedopornografia.
Sharenting e diritto alla privacy, mondi contrapposti
La creazione, inoltre, di un’identità digitale attivata senza previo consenso del minorenne, potrebbe influenzare negativamente la sua futura reputazione. Quella clip simpatica e buffa di un cambio di pannolino potrebbe rivelarsi in seguito imbarazzante, rivelandosi deleteria e con potenziali conseguenze psico-emotive a lungo termine. Quel sorriso innocente e sdentato potrebbe finire nelle mani sbagliate. Quella sponsorizzazione potrebbe creare disagio in un bambino ormai grande, che si ritrova, suo malgrado, ad essere testimonial di un prodotto pubblicitario.
Fortunatamente, sembra che qualcosa si stia smuovendo davvero in questo campo. Basti pensare ai Ferragnez, che di certo non si sono mai fatti problemi a pubblicare ogni dettaglio della loro intimità, Leone e Vittoria inclusi, ma che adesso si affannano a non mostrare i visetti dei due piccolini. Gocce in un mare di #adv, #giftedby e #sponsoredby, ma pur sempre stille di speranza per un ritorno a una più sana privacy e discrezione, che magari restituisca ai più piccoli il diritto di essere, semplicemente, quello che sono: bambini.
Federica Checchia
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