“A spasso con Daisy” è l’adattamento per il grande schermo della pièce teatrale “Driving Miss Daisy” di Alfred Uhry del 1987, che l’anno dopo vinse con l’opera il premio Pulitzer per la drammaturgia. Morgan Freeman, co-protagonista della pellicola, ha fatta parte del cast originale dello spettacolo che debuttò lo stesso anno a New York.
Atlanta, 1948: Daisy (Jessica Tandy) è un’anziana vedove ebrea, ricca senza volerlo ammettere, indipendente e testarda, cui l’età inizia a fare qualche scherzo di troppo. Dopo una banale incidente in auto, il figlio Boolie (Dan Aykroyd) decide di affiancare ad Idella, la sua donna di servizio, un autista che si occupi dei suoi spostamenti.
“A spasso con Daisy”: esìli di razza a confronto
La scelta cade su Hoke (Morgan Freeman), afroamericano sveglio e volenteroso a caccia di lavoro. Inizialmente tutte le idiosincrasie di Daisy renderanno più che travagliata la nuova convivenza. Ma il passare del tempo e la resilienza di Hoke permetteranno la nascita di un rapporto umano vero, che accompagnerà Daisy fino alla fine dei suoi giorni. Aldilà della discreta dose di retorica svenevolezza con cui il grande pubblico lo ha recepito ai tempi – e l’Academy stessa, che lo premiò con quattro Oscar – “A spasso con Daisy” trova i suoi punti di forza ben oltre i confini della politica dei buoni sentimenti, della tolleranza e del volemose bene.
La scrittura di Alfred Uhry, che curò la sceneggiatura della pellicola, rappresenta un grande esempio di drammaturgia al servizio del proprio presente. Le coordinate spazio-temporali scelte per la messa in scena sono emblematiche del livello della sfida intrapresa: il sud razzista degli Stati Uniti alla vigilia e lungo tutto l’arco della serie di tentate rivoluzioni sociali dei decenni successivi. Nella pellicola diretta da Bruce Beresford i protagonisti danno vita ad un rapporto dialettico di diffidente riduzione delle reciproche distanze e, idealmente, ad una finale convergenza delle reciproche radici identitarie.
Un grande cast per un grande plot
Merito di una grande scrittura, che evita l’altissimo rischio di overdose di zuccheri mantenendo sempre dritta la barra di una narrazione fatta di ritmo leggero ma costante e di piacevole sostanza. Merito di una regia e di un montaggi sapidi ed eleganti e di una ricostruzione attenta delle location e dello spirito dei tempi. E merito di una coppia di protagonisti, a cui va aggiunto un Dan Aykroyd misurato e brillante nella sua benevola pinguetudine da imprenditore di successo e figlio amorevole, assolutamente eccezionali. Jessica Tandy, monumentale nell’incarnare le contraddizioni di una donna troppo anziana per l’epoca in cui vive. In lei la vita ha giocoforza instillato la diffidenza come forma di sopravvivenza, ma la sua natura più profonda la porta a mettere in discussione fino alla fine le convenzioni e le buone maniere di quella stessa società che in conclusione l’ha messa tra i vincenti.
Morgan Freeman, attore di cinema già prestato al teatro per il debutto newyorchese dell’opera, è magistrale nel dare alla controparte afroamericana della vicenda un taglio credibile, pur non venendo meno alle peculiarità del personaggio e dei suoi retaggi. Lontano dal luogo comune dell’idiot savant tanto caro a una certa produzione dell’epoca, Hoke è disponibile ma mai servile, lucidamente passivo, emblema della pratica del rispetto e del buon esempio come forma di relazione ideale. Oltre ai quattro premi Oscar (Miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura non originale e miglior trucco), la pellicola vinse anche un Orso d’argento, un David di Donatello e un premio BAFTA.
Andrea Avvenengo
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