Aborto farmacologico: le nuove linee di indirizzo e l’adattamento delle Regioni

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Di Redazione Metropolitan

Il Ministero della salute nel 2020 ha adottato nuove Linee di indirizzo sull’aborto farmacologico, al fine di rendere più sicura e libera la possibilità per le donne di interrompere la gravidanza. Tuttavia la messa in atto di queste nuove linee è vincolata dagli adeguamenti delle singole regioni, e molte di esse hanno mostrato il proprio inadempimento.


Ru486-Photo credits: Tuttoggi

Il 4 agosto 2020 il Ministero della salute ha adottato nuove Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria della gravidanza con mifepristone e prostaglandine. In questo modo emerge la possibilità di interrompere una gravidanza con i farmaci, Ru486 e prostaglandine. L’utilizzo del farmaco è stato inoltre esteso fino alla nona settimana di gestazione, in ospedale in day hospital o in consultori e ambulatori adeguatamente attrezzati.

L’adempimento delle Regioni

L’applicazione delle linee di indirizzo ministeriali dipende in parte dalle Regioni. È infatti necessario che sulla de-ospedalizzazione le Regioni formalizzino il recepimento delle linee di indirizzo nazionali. Tuttavia non tutte le regioni sembrano adempiere a queste nuove linee di indirizzo. Sono solo tre per ora le regioni che hanno mostrato la loro efficienza.

Toscana

La Toscana è stata la prima Regione in Italia in cui si può praticare l’aborto farmacologico anche in ambulatori fuori dagli ospedali. Alla delibera approvata è stato allegato il “Protocollo operativo per l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica”. Secondo quanto previsto dal protocollo, la donna che decide di interrompere la gravidanza, si presenta in una delle sedi autorizzate a praticare l’Ivg. Deve avere un documento o un certificato di richiesta rilasciato dal medico del presidio consultoriale, dal medico di famiglia o da altro medico di fiducia. Dovranno inoltre essere fornite tutte le informazioni necessarie sulla Ivg farmacologica e dovrà essere acquisito il suo consenso informato. Le strutture sanitarie dove sarà possibile la somministrazione della RU486 sono tutte le strutture autorizzate dalla legge 194, compresi i poliambulatori pubblici, e i consultori.

“E’ completamente inutile far soffrire le donne più di quanto non debbano già fare: complicare e burocratizzare ulteriormente questo passaggio servirebbe solo a colpevolizzarle e punirle”. È quanto ha affermato il presidente Enrico Rossi.

Emilia Romagna

A settembre 2020 anche l’Emilia Romagna si è adeguata alle disposizioni nazionali, introducendo la possibilità di utilizzare la pillola RU486 fino alla nona settimana di gravidanza. L’assessore regionale alle Politiche per la salute, Raffaele Donini ha sottolineato che “parliamo di un ambito estremamente delicato e complesso”. La Regione infatti lavora su due fronti: da un lato recepire sul territorio ciò che prevedono le disposizioni nazionali per garantire gli stessi diritti alle donne, dall’altro continuare a offrire loro aiuto e assistenza lungo l’intero percorso, attraverso strutture e personale altamente qualificato.

Lazio

Il 26 gennaio è stata pubblicata la determina con la quale la Regione Lazio ha acquisito il “Protocollo operativo per la interruzione volontaria della gravidanza del primo trimestre con mifepristone e prostaglandine, in regime ambulatoriale o di day hospital”. La determina regionale si propone di rimuovere gli ostacoli all’accesso per la pratica dell’aborto farmacologico, al fine di assicurare a tutte le donne un servizio che tenga conto della sicurezza. In questo modo mira a garantire la possibilità di scegliere la procedura per l’interruzione della gravidanza.

Proteste per il diritto di aborto farmacologico-Photo credits: Fanpage

Ostacoli all’aborto farmacologico

Nonostante queste nuove linee di indirizzo sull’aborto farmacologico rappresentino un passo in avanti per la piena realizzazione del diritto delle donne, vi sono Regioni che si muovono in maniera diametralmente opposta a queste nuove misure. Basti infatti pensare alle Marche e all’Umbria. Il braccio di ferro tra le donne che vogliono vedere il proprio diritto divenire una garanzia e coloro che invece remano contro continua incessantemente. In particolare sono due gli ostacoli che persistono: l’obiezione di coscienza dei medici, e il trattamento degradante e pregiudizievole degli stessi operatori sanitari.

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