Il prossimo 28 aprile Al Pacino spegnerà ottantacinque candeline. In vista del traguardo, l’attore statunitense dalle origini siciliane ha deciso mettere nero su bianco i momenti clou della sua vita. Sonny Boy, curata dal New York Times, è un’autobiografia schietta e sincera, senza filtri. Dimenticate l’immagine patinata del divo di Hollywood, nel testo si parla della persona dietro il personaggio. Il titolo del libro è ispirato ad un nomignolo affibbiatogli a scuola dai suoi compagni e al rapinatore Sonny Wortzik, da lui interpretato in Quel pomeriggio di un giorno da cani, film del 1975 di Sidney Lumet. Da un Premio Oscar, vinto nel 1993 per Scent of a Woman- Profumo di Donna, ci si potrebbero aspettare aneddoti divertenti e in linea con la sua attività artistica. Invece, scorrendo le trecento pagine che compongono il volume, uscito il 15 ottobre, si ha la sensazione che la vanagloria non rientri tra i sentimenti dell’autore.
Pacino parte dal principio, ovvero da quel ragazzino nato ad East Harlem, ma cresciuto nel Bronx. Gli anni Cinquanta, un’epoca di ferventi cambiamenti, vissuti in un quartiere difficile e senza il padre, che abbandona la famiglia. «Ci arrampicavamo sulle cime dei tetti e saltavamo da un palazzo all’altro. Ci aggrappavamo ai sedili posteriori degli autobus e se volevamo del cibo, lo rubavamo», ricorda nei primi capitoli. E poi ancora, il legame con i nonni e i problemi di salute della madre, che tenta il suicidio quando lui ha solo sei anni. Nonostante questo, la donna lo tiene lontano dalle cattive compagnie: «Ero furioso che mi dicesse di non uscire, ma mi ha salvato la vita.».
Al Pacino si racconta in Sonny Boy: la scoperta del teatro e il successo al cinema
A quindici anni irrompe l’amore per il teatro, che Al Pacino scopre grazie a una rappresentazione de Il gabbiano di Anton Cechov: «Sul palcoscenico mi sono sempre sentito come a casa mia. Sentivo che era il mondo a cui appartenevo. Certo, mi piaceva anche stare sul campo da baseball, ma giocare a baseball non mi riusciva altrettanto bene come fare questa cosa che si chiamava teatro. Mi divertivo. Mi sentivo libero, felice». Sin dai primi spettacoli scolastici, il talento naturale di quel ragazzo prodigio appare evidente a tutti. «Immagino che me la cavassi», scherza, «tant’è che un tizio una volta mi disse: “Eh, ragazzo! Se vai avanti così, sarai il nuovo Marlon Brando!”. Lo guardai e gli chiesi: “E chi è Marlon Brando?”». Quando sua madre cade nuovamente in depressione, l’interprete abbandona la Performing Arts di New York e tenta di sbarcare il lunario con vari lavoretti, dal pony express all’addetto alle pulizie, continuando però a sostenere provini.
La ruota gira definitivamente nel 1972 quando il regista Francis Ford Coppola, che lo aveva visto in scena, lo scrittura per la parte di Michael Corleone nel film Il padrino. «Un pomeriggio ricevetti una telefonata.» -scrive- «Dall’altro capo della linea sentii una voce che avevo quasi dimenticato: quella di Francis Coppola. Per prima cosa mi disse che sarebbe stato lui a dirigere Il padrino. Pensai che stesse delirando. Com’era possibile che dessero a lui il romanzo di Mario Puzo? Era un grande successo, l’avevo letto anch’io e sapevo che non era da tutti venire coinvolti in un progetto del genere.». Pacino non crede di essere all’altezza: «La Paramount non mi avrebbe mai scelto come Michael Corleone nel Padrino, volevano Jack Nicholson, Robert Redford, Warren Beatty o Ryan O’Neal. Il mio manager, furioso, mi ordinò di salire su quel cazzo di aereo e mi fece ubriacare di whisky.». Le cose, per fortuna, vanno per il verso giusto.
Il lato oscuro della fama
Sonny Boy è intriso di aneddoti del passato, dall’incontro con Marlon Brando sul set («Mangiava pollo alla cacciatora con le mani. Aveva le mani piene di sugo rosso. Anche il suo viso. E per tutto il tempo, quello era ciò a cui riuscivo a pensare. Qualunque fossero le sue parole, la mia mente era fissata sull’immagine di fronte a me, piena di macchie. Lui parlava ed io ero semplicemente ipnotizzato») alla crisi negli anni Ottanta, che lo ha quasi mandato sul lastrico, e dalla quale è uscito grazie all’allora fidanzata Diane Keaton. E poi l’alcolismo («L’alcol ha un potente effetto depressivo e mi ha devastato») e i problemi economici causati da un contabile corrotto che ha portato i suoi risparmi da cinquanta milioni di dollari a zero. «Ero al verde. Avevo 50 milioni di dollari e poi, di colpo, non mi restava più niente. Avevo delle proprietà, ma non avevo soldi».
Per l’attore, all’epoca settantenne, diventa difficile anche trovare delle pellicole per ricominciare: «Non ero une ragazzo e non avrei guadagnato tanti soldi recitando nei film che avevo fatto prima. I grandi compensi a cui ero abituato semplicemente non arrivavano più. La situazione era cambiata ed era più difficile per me trovare i ruoli.». A soccorrerlo, Adam Sandler: «Jack e Jill è stato il primo film che ho realizzato dopo aver perso i miei soldi. A dire il vero l’ho fatto perché non avevo nient’altro. Adam Sandler mi voleva e mi pagavano molto. Quindi l’ho fatto, e mi ha aiutato. Adoro Adam, è stato meraviglioso lavorare con lui ed è diventato un caro amico.».
Al Pacino in Sonny Boy: «Essere padre a 84 anni è divertente!»
Vendendo alcune proprietà e dedicandosi ad altre attività, la situazione rientra. «I seminari sono stati un’altra grande scoperta per me.» -spiega Pacino- «In passato, andavo sempre al college e parlavo con i ragazzi, solo per uscire ed esibirmi per loro, in un certo senso. Raccontavo loro un po’ della mia vita, mi facevano delle domande. …Non venivo pagato per questo. Ma ora che ero al verde, ho pensato: “Perché non continuare a farlo?” C’erano tanti posti in cui potevo andare e tenere questi seminari. Non necessariamente università. Sapevo che c’era un mercato più ampio per questo tipo di cose. Così ho iniziato a viaggiare. E ho scoperto che funzionavano. Il pubblico veniva perché ero ancora popolare!».
Nel memoir, Al Pacino parla anche del Covid e della sua esperienza personale con il virus: «L’ambulanza davanti a casa. Sei infermieri e due medici vestiti come astronauti. Non ci avevo mai pensato prima. Ma sai come sono gli attori. Suona bello dire che sei morto una volta.». Fortunatamente, i tempestivi soccorsi gli salvano la vita. Vita che assume un nuovo significato lo scorso anno, con la nascita del quartogenito Roman, un’emozione che ha riacceso in lui il desiderio di «restare in giro ancora per un poco se mi è possibile. Fare di nuovo il papà a 84 anni è divertente!».
Sonny Boy è stato tradotto e pubblicato in Italia da La Nave di Teseo, ed è disponibile dal 15 ottobre in formato cartaceo e digitale.
Federica Checchia
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