C’è chi cresce a dolcetti, fate e principi azzurri e c’è chi cresce a pane e fantascienza. Indovinate? Io mi ingozzo di tutto un po’ – immagino cominciate a capirlo – ma riesco ad apprezzare enormemente le cenette a tema. Altered Carbon è fantascienza, post-cyberpunk ma è anche qualcos’altro.
Tratta dall’omonimo romanzo di Richard K. Morgan – in Italia uscito con il titolo di Bay City – la serie con cui Netflix si è lanciata in questo settore va presa un un po’ come la cucina fusion. Sì, perché c’è la fantascienza, ma anche uno spirito noir sfumato di poliziesco, servito e impiattato con una corposa e ricca salsa action. I debiti stilistici sono sicuramente innegabili, e vanno dal cult di Ridley Scott Blade Runner a classici come Matrix.
Anno 2384, San Francisco – aka Bay City: le A.I. sono ovunque e gestiscono vecchi hotel; la clonazione è all’ordine del giorno. Ma c’è di più ed è proprio da questo di più che sgorga l’insieme di riflessioni che fanno di Altered Carbon qualcosa di interessante.
Una rivoluzione tecnologica permette ormai agli essere umani, grazie alle cosiddette pile corticali, di trasferire la propria coscienza (o anima, come preferite) da un corpo a un altro. Non vi è chiaro subito dove si va a parare? Involucri, meri involucri. Computer dove inserire hard disk, ecco cos’è il corpo umano ormai. Ciò ci rende potenzialmente immortali. Per chi se lo può permettere ovviamente. E qui risiede proprio lo spunto più interessante di Altered Carbon. Il corpo è merce. E la merce costa.
La forbice sociale è al massimo della sua espansione: i poveri muoiono, i Mat – matusalemme – ovvero i ricchi possono raggiungere le centinaia di anni. Un episodio in particolare ha fulminato i miei pensieri: una bambina reincarnata nel corpo di una signora anziana poiché per la sua scarsa assicurazione quel corpo decadente era il massimo che ci si potesse permettere. O ancora: combattimenti mortali e al vincitore spetta un involucro migliore.
Insomma gente, sembra banale dirlo così. Ma quando la verità profonda di questa realtà vi colpisce, lo fa pesantemente e a fondo, vi esplode nel petto. Provate a pensare a questo: muore la persona che amate, e – fortunatamente – si può permettere un altro involucro. Ma non lo stesso. Sareste in grado di continuare ad amarla? Vi piacerebbe?
Lungo il suo svolgimento Altered Carbon propone una lunga serie di questo genere di spunti, anche se di fatto non risulta poi in grado di approfondirne adeguatamente neanche uno, a parte quello che coinvolge il nodo centrale della storia.
In effetti non tutte le storyline funzionano allo stesso modo e ugualmente bene, nonostante vada sottolineato che alla fine dei conti tutti gli elementi del puzzle finiscono per incastrarsi benissimo.
Di fronte a Carbon la critica si è sostanzialmente divisa in due: una delle fazioni sostiene che manchi sistematicamente di profondità. Mi trovo a non essere del tutto d’accordo. Vero che, come accennato in precedenza molti spunti finiscono per restare muti ma è anche vero che non è compito della serie diramare approfonditamente le riflessioni che dovrebbe stimolare. Inoltre trovo che sia abbastanza in linea con molta della tradizione fantascientifica: far notare, indicare, utilizzare se stessa come rampa di lancio del pensiero – poi libero di spaziare – e non come tela di un pittore su cui dispiegare nei minimi dettagli il quadro generale.
Nonostante ciò è innegabile che ci sia poco equilibrio nella scrittura, difetto reso evidente dal contrasto tra la prima parte – estremamente contemplativa – e un finale dal ritmo sincopato che a volte scivola un po’.
A tali mancanze si affiancano elementi sicuramente di valore. La resa delle Intelligenze Artificiali – ormai molto più umane degli esseri umani – è superba e superbamente incarnata in primo luogo da un Edgar Allan Poe (Chris Conner) cupo e amabile gestore del The Crow. È solo un computer ma a chi importa? Me lo sarei portata a casa come compagno di giochi in meno di due minuti.
Il ruolo delle religioni calato in un contesto di siffatto genere: come può esistere l’ascenzione, l’anima, dio stesso se la nostra essenza non si libera? Se di fatto non ha la possibilità di ricongiungersi al divino?
Fotografia e scenografia regalano agli appassionati del genere un vero festino per gli occhi: colori, forme, costruzioni; i contrasti tra il lerciume dei sobborghi e lo splendore dei quartieri alti. Tutto è reso magistralmente, elegantemente, conformemente.
Tra i diversi protagonisti spicca una buona anche se non eccelsa recitazione – risulta un po’ freddina, un tantino troppo impostata sul “duro più duro dei duri” – del protagonista Takeshi Kovacs (Joel Kinnaman). A rubargli la scena un’ottima Eva Padoan, che nei panni del detective Kristin Ortega si carica sulle spalle il compito di fornire l’apporto noir alla storia, reggendone rudemente e perfettamente il peso.
In sostanza, se per cena volete Altered Carbon, gusterete un piatto non proprio perfetto di una cucina esotica che, pur con tutti gli innegabili difetti, vi lascerà un buon sapore sul palato, qualcosa nella pancia a cui continuerete a pensare anche dopo aver finito e la voglia di tornare al ristorante.
Gaia “Ellie on the Rock” Cocchi