Chi ama il cinema, le serie, il mondo audiovisivo e, in generale, la cultura pop nostrana non può perdersi la nuova serie prodotta da Sky e distribuita su Now. La serie pullula easter eggs e riferimenti al panorama cinematografico e televisivo, puntando i riflettori sulla tomaia che costruisce e protegge questo mondo: gli agenti e gli assistenti che seguono gli artisti del settore. In realtà Call My Agent non è una produzione originale italiana ma un format francese che è stato riproposto in molti Paesi del mondo, dall’Inghilterra all’India, dalla Polonia al Canada. La serie italiana si propone di raccontare il lavoro di Vittorio (Michele Di Mauro), Lea (Sara Drago), Elvira (Marzia Ubaldi) e Gabriele (Maurizio Lastrico) all’interno della Claudio Maiorana Agency (CMA), che si occupa di seguire la carriera di artisti nostrani.
Mi è sembrato subito evidente che una serie del genere può avere tanto successo solo nel suo adattamento perché il nucleo del format Call My Agent risiede nella capacità e nell’astuzia di far leva sulla cultura e sugli stereotipi nazional popolari, ridicolizzandoli, criticandoli e, a volte, onorandoli. Il dietro le quinte del mondo dello spettacolo e i fantocci che lo abitano è messo sotto la lente d’ingrandimento di Lisa Nur Sultan (Studio Battaglia, Sulla mia pelle) e Federico Baccomo (The Comedians, Improvvisamente Natale), sceneggiatori dell’adattamento italiano.

Call My Agent, le stelle senza riflettori
Ogni puntata della serie si concentra su un personaggio del mondo dello spettacolo che si presta all’interpretazione esasperata di se stesso. Non credo si possa parlare di veri e propri cameo perché i protagonisti raccontano le personalità che abbiamo costruito per loro, interpretando non se stessi ma il ruolo che ricoprono nella comune percezione sociale. Eppure, tra il serio e il faceto, si ripercorrono degli strascichi di realtà che calcano gli stereotipi di un mondo (quello artistico) che non può e non vuole spiegare le proprie regole. Infatti lungi dal pensare che Call My Agent abbia una parvenza di realtà, ci conviene piuttosto stare al gioco e prendere dalla serie la sua parte più vera, ovvero quella che racconta di un mondo disorganizzato, competitivo, stressante, confusionario ma che profuma di umanità e di sentimenti soffocati dalle tragiche maschere dei suoi protagonisti.
La serie segue lo stesso filone narrativo di Boris (di cui da poco è uscita la quarta stagione su Disney+), oltrepassando un’ulteriore soglia che fa riferimento ai veri artisti che ci mettono la faccia e il nome: Paola Cortellesi, Paolo Sorrentino, Pierfrancesco Favino e Anna Ferzetti con le due figlie, Matilda De Angelis e Corrado Guzzanti; ma anche tantissimi altri come Ivana Spagna, Pif, Joe Bastianich, Paolo Genovese e Alberto Angela. Insomma è bello vedere questi personaggi che interpretano se stessi, poco importa cosa rimane di vero e cosa è percepito come tale: per partecipare occorre sapersi mettere in gioco ed essere abbastanza intelligenti da capire quali sono i punti ciechi di un mondo che tende all’autodistruzione. Quello che rimane sono i residui di maschere rotate: l’attrice talentuosa che “invecchia”, l’autore intellettuale a cui non si dice mai di no, l’attore ingabbiato nel ruolo che recita, il protagonista insicuro e così via. Tutti sembrano ruotare attorno a un centro gravitazionale che tenta di tenere saldi gli equilibri precari di un mondo dalle leggi indefinite.
La parabola di Perfetti Sconosciuti
Credo che la serie e i suoi scrittori rendano omaggio a una parte fondamentale di qualsiasi produzione: la sceneggiatura, ancora oggi quasi totalmente oscurata dai nomi di grandi registi e attori ma che, in realtà, costituisce le fondamenta di qualsiasi capolavoro. “Niente sceneggiatura, niente film, niente soldi, niente attori, niente agenti, niente assistenti” dice Pierpaolo (Francesco Russo) mentre introduce Camilla (Paola Buratto) al suo nuovo ruolo di assistente. Nella prima puntata di Call My Agent Pierpaolo racconta una storia che coinvolge Vittorio, uno degli agenti, reo di aver scartato l’idea di Paolo Genovese, suo cliente, di avviare il progetto di Perfetti Sconosciuti.
Oggi sappiamo che il film ha collezionato circa venticinque remake in tutto il mondo e, nella serie, Claudio Maiorana (Federico Fazioli), ceo dell’agenzia, decide di appendere la locandina taiwanese di Perfetti Sconosciuti sopra la macchina del caffé. “Per ricordarci ogni mattina” racconta Pierpaolo “che i successi vanno saputi vedere prima; dopo sono bravi tutti”. A prescindere dell’iconicità del momento e del modo in cui è magistralmente raccontato, si insinua il fondo di veridicità su cui si costruisce qualsiasi retorica presente in Call My Agent. Mi riferisco al lavoro degli operatori della fabbrica dei sogni impegnati costantemente nella ricerca del prossimo successo, che non ha niente a che fare con il mondo patinato che immaginiamo. Al contrario Call My Agent racconta di un mondo umano che distrugge il mito della costruzione dei sogni, dei capolavori, per restituire i sogni di carriera e prestigio a quelli che li creano. La serie racconta di un mondo bizzarro che sembra non prendersi mai troppo sul serio o che coscientemente fa trasparire questo di sé; perché è nella magia di quell’intellettualismo da salotto borghese che si trincera una profonda verità: tutto il mondo è paese, come ogni lavoro.
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Benedetta Vicanolo
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