Louis Letterier non è mai stato un regista abituato a lavorare di fioretto: da “The Transporter” (2002) a “Scontro tra titani” (2010), evoluzione volgare di quel filone action-mitologico nato con il “300” di Frank Miller, il regista si è sempre trovato a proprio agio con prodotti dove sono l’azione, l’adrenalina e il concetto di cinema come videogame a fare da padroni. Poca speculazione, molti schiaffi. Nella sua filmografia, “Danny the Dog” rappresenta in qualche modo una (parziale) eccezione.
Danny (Jet Li) è orfano, praticamente muto e capace di uccidere un uomo a mani nude in un batter d’occhio. E’ il cane da guardia eletto del gangster Bart (Bob Hoskins): cane in tutti i sensi, visto che è stato cresciuto in cattività e obbedisce solo agli ordini del boss e padrone, che lo controlla tramite un collare.
“Danny the dog”: padri e padroni
La casuale conoscenza con l’ex pianista cieco Sam (Morgan Freeman) aprirà nuove, inattese prospettive esistenziali per Danny, ma prima dovrà chiudere una volta per tutte i conti con il proprio passato.
il progetto, scritto e ideato da Luc Besson (“Leon”), nasce in qualche modo come una bizzarra e distorta favola contemporanea, pur sommersa da una discreta quantità di teste spaccate e acrobazie circensi e come ennesima declinazione di un tema particolarmente caro al regista francese. La dicotomia tra i modelli paterni Bob Hoskins/Morgan Freeman e la musica come strumento di crescita, espressione ed emancipazione sono temi enormi e pieni di potenziali spunti narrativi, ma la sua traduzione secondo la grammatica dell’action a mani nude si rivela una scelta a conti fatti castrante e fin troppo didascalica. Una sintesi tra urgenze e soluzioni narrative non del tutto realizzata: in “Danny the dog” tutto è eccessivo e gioiosamente squilibrato, malamente miscelato.
“Danny the dog”: gli interpreti
Se l’erede designato di Bruce Lee, Jet Li, è l’indiscusso numero uno quando si tratta di coreografare combattimenti, in un progetto dove una qualche abilità attoriale non andrebbe certo sprecata il nostro mostra il fianco, ingessato com’è su quell’espressione da marionetta triste che si rivela tanto funzionale quanto eccessiva se proposta per l’intera durata del film.
Morgan Freeman, fresco di Oscar per “Million Dollar Baby” è al solito preciso e misurato in un ruolo-stereotipo che rimanda alle figure archetipiche della fiaba e Bob Hoskins (“Chi ha incastrato Roger Rabbit?”) gigioneggia con gusto ed evidente divertimento nei panni del boss e padre-padrone Bart. Funziona bene invece la colonna sonora affidata alle divinità trip-hop Massive Attack, le cui atmosfere fumose e dilatate sanno dare un taglio subdolo e drammatizzante alla messa in scena. Un buon prodotto di intrattenimento e niente di più, con il sospetto nell’aria che se Besson se ne fosse occupato direttamente sarebbe riuscito a mettere un minimo d’ordine e omogeneità in più all’intero lavoro.
Andrea Avvenengo
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