
Se si parla di parità di genere e salariale, spesso un uomo risponde “siamo tutti in crisi, non solo il lavoro femminile”, oppure “la battaglia per la parità salariale è divisoria”. Commenti veri di persone reali.
Poco importa portare dati e studi a supporto della tesi che maggior lavoro femminile corrisponde a maggior PIL (prodotto interno lordo) e che, quindi, tutti ci guadagneremmo; no, è tutto nella testa delle femministe.
Ma è davvero così?
I dati ISTAT:
È di qualche giorno fa l’esito della ricerca ISTAT sull’occupazione e la disoccupazione in Italia.
A dicembre l’occupazione cala di un -0,4%, che corrisponde a -101mila unità. Da marzo a dicembre 2020 il calo complessivo è però superiore alle 440mila unità, per un -1,9%.

Lo squilibrio continua a crescere, con una netta maggioranza di donne che hanno perso il lavoro rispetto alla stabilità degli uomini. Il dato di dicembre è ancora più impressionante: delle 101mila unità di lavoro perse, 99mila sono donne.
Cresce anche la disoccupazione giovanile, con particolare fatica nella fascia 25-49 e diminuiscono le persone in cerca di lavoro (-8,9%, ovvero 222mila unità) sfiduciati dalla crisi economica e politica.
Per ulteriori informazioni su giustomezzo visitare il sito a questo link qui, mentre la petizione potete trovarla qui (le firme sono già 52,320).
Parità di genere, questione di obblighi morali?
Questa è l’occasione per parlare apertamente del problema donne e lavoro in Italia. Lia Quartapelle, Capogruppo deputati PD Commissione Esteri, sostiene che gli stereotipi sulla donna sono alla base dello squilibrio mostrato dai dati Istat.
Prendiamo il lavoro di cura non pagato. In famiglia la donna occupa il ruolo di gestione della casa e della cura di anziani e bambini, ovviamente è tutto lavoro non riconosciuto, quasi dovuto. Un obbligo delle donne in quanto donne?
Agli uomini non è richiesto lo stesso impegno: nel mondo il 42% delle donne non può lavorare perché impegnato nella cura di familiari anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione.
In Italia: “il 21% delle donne in età lavorativa dichiara di non cercare un’occupazione o di non essere disponibile perché impegnata nel lavoro di cura non pagato” scrive giustomezzo su Instagram.
Una donna è così costretta a scegliere tra carriera e famiglia, lì dove c’è carenza di sevizi.
Facciamo un esempio concentro: solo 24 bambini su 100 trova posto negli asili nido, dato che si traduce in oltre 25mila genitori che scelgono di abbandonare il lavoro per gestire la vita famigliare.
Come abbiamo già scritto, a questo ritmo la parità di genere sarà raggiunta forse tra 100 anni.
Investire nella parità di genere
Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat e chair di W20 (Women20, uno degli engagement group del G20) a RaiNews dichiara: “La situazione è molto critica perché questa è stata una crisi atipica. […] Le donne sono state molto colpite, soprattutto perché inserire nel settore dei servizi e non nell’industria. […] Le ha penalizzate perché hanno lavori più precari, microimprese e soprattutto lavoro irregolare”.
Su come affrontare la disparità di genere e il women empowerment ci sono molte proposte di donne e associazioni, prima fra tutti l’adeguato uso del Recovery Fund. Prima di tutto, per usare le parole di Sabbadini, serve: “[…] investire sulle infrastrutture sociali, sugli asili nido, sul welfare di prossimità, la cura di anziani e disabili“. E aggiunge in chiusura del servizio: “Siamo sotto zero rispetto all’Europa su questi aspetti e le donne hanno pagato il prezzo“.
Investire nei servizi per investire nel lavoro, ecco qual è la formula. Si legge sempre più spesso che questo generi di investimenti sono solo forme di assistenzialismo e che sarebbe meglio spenderli per creare lavoro. Esatto, anche i servizi di assistenza generano posti di lavoro, posti spesso ricoperti da donne e, come ulteriore conseguenza, libererebbe molte donne dalla fatidica scelta: carriera o famiglia.
Secondo Magda Bianco, capo del Servizio Antiriciclaggio della Banca d’Italia, se l’Italia raggiungesse il 60% di occupazione femminile, il PIL aumenterebbe del 7%.
Lo ricorda anche la parlamentare europea Alexandra Geese: “il digitale e l’ambiente (si concentreranno il 57% degli investimenti in questi settori) sono stradominati dall’occupazione maschile“. Proprio per questo la Commissione valuterà i piani nazionali di rilanci in chiave “gender equality”.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.