In un’intervista David Foster Wallace disse che voleva scrivere di cosa si prova a vivere. Influenzato dal padre professore di filosofia, è stato sempre attratto dai meccanismi che muovono l’umanità. Ha lottato per tutta la vita con la malattia mentale, che lo ha portato a interrompere più volte gli studi in filosofia al college di Ameherst. Dopo aver seguito un master nell’università dell’Arizona, insegnerà lui stesso scrittura creativa. I suoi studenti lo ricordano nel suo appartamento circondato di libri e spessi manoscritti.

Il suo libro di esordio viene pubblicato nel 1987, con il titolo “The broom of the system”, quello che lui definisce una sorta di romanzo scherzoso di settecento pagine. Da grande ammiratore di Kafka, nelle sue opere ne riporta l’ironia intellettuale. “Infinite Jest” del 1989 è considerato il suo capolavoro. Partendo dall’idea di un film senza fine che il fruitore comune di tv non riesce a smettere di guardare, in più di mille pagine, Wallace ragiona sul ruolo dell’intrattenimento nella società capitalista. Il mondo del tennis, sua altra grande passione, si intreccia con il racconto della malattia depressiva e con lo svisceramento di svariati episodi di vita quotidiana.

David Foster Wallace: uno scrittore prestato al giornalismo

copertina "Una cosa divertente che non farò mai più" del 1997
Copertina del libro “A supposedly fun thing i’ll never do again” 1997 di David Foster Wallace

Oltre alla sua produzione narrativa, di cui ricordiamo le antologie di racconti “A girl with courious hair” del 1989 e “Brief interviews with hideous men” del 1999, gli otto romanzi brevi in “Oblivion” (2004), gran parte della fama dell’autore è legata alla scrittura di saggi non-fiction, in cui emerge la sua capacità di osservatore minuzioso dei costumi della società americana. Tutto ha inizio quando la rivista Harper’s alle soglie del XXI secolo, gli affida reportage personali in luoghi in cui si concentrano tutti gli stereotipi americani.

Dall’esperienza sgradevole di una crociera ai Caraibi nascerà il successo “A supposedly fun thing i’ll never do again” del 1997. Una feroce satira sul White trash. L’esperienza giornalistica darà alla luce anche la straordinaria raccolta di saggi “Consider the lobster” del 2004. Il titolo fa riferimento al Festival culinario del Maine, in cui Wallace si sofferma sul brutale gesto di cucinare vive le aragoste in acqua bollente.

Analizza le strutture neurologiche dell’animale facendo leva sulla sua sofferenza. Una cifra stilistica di Wallace è sicuramente il suo posizionamento dello sguardo straniante sul mondo contemporaneo divorato dal consumismo. Come nel caso del saggio sull’11 Settembre, in cui la vicenda è raccontata attraverso la figura della signora Thompson. Una comune vecchietta del Midwest. Un modello magistrale di scrittura resta il suo “Il tennis come esperienza religiosa” (2004) con i due saggi dedicati agli US Open del 1995 e alla figura leggendaria di Roger Federer.

Eleonora Ceccarelli

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