Detroit: l’inizio di una battaglia che dura ancora oggi

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Di Redazione Metropolitan

Cinque giorni di riot, quarantatré morti, oltre mille feriti: quella di Detroit nel 1967 è una delle più grandi rivolte afroamericane della Storia. Una città in guerra che la regista Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal, alla terza collaborazione, decidono di raccontare focalizzandosi sul cosiddetto “incidente” dell’Algiers Motel.

Un incubo claustrofobico e violento

Dopo aver vagamente presentato il contesto sociale degli scontri, Detroit (2017) trascina lo spettatore dentro un incubo claustrofobico e violento. Oltre metà del film, infatti, è ambientata dentro l’hotel in cui la polizia irrompe e tortura un gruppo di adolescenti, uccidendone tre, afroamericani. L’intento, molto chiaro, è quello di denunciare una crudeltà ingiustificata che trova le sue radici nel razzismo sistemico, presente da oltre quattrocento anni negli USA. L’uso insistito della camera a mano e la generale estetica documentaristica sottolineano quest’obiettivo. Ciononostante, le intenzioni si traducono in un risultato ambiguo, un film che assume valore diverso in base a pubblici diversi, rendendo necessaria una riflessione.

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Ricostruzione esterna di un trauma afroamericano

Primo problema è il cosiddetto white gaze, lo sguardo bianco che rende il corpo nero un mero oggetto passivo. Lo sguardo esterno della regista bianca aleggia sui personaggi afroamericani rendendoli nient’altro che vittime. Privi di un’adeguata costruzione psicologica, esistono solo in relazione ai loro oppressori, ripercorrendo un topos cinematografico che sicuramente un/a regista black avrebbe evitato. Questo conduce direttamente al secondo punto della riflessione, il riconoscimento del white power come vero protagonista. Non vi è alcun dubbio, infatti, che il film ruoti intorno alla sua pervasività e al suo abuso.

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Gli unici personaggi agenti sono proprio i tre poliziotti coinvolti nella morte dei ragazzi. Per oltre due ore di film il pubblico subisce impotente la loro intollerabile violenza, vivendo un profondo conflitto morale. È impossibile allinearsi con le figure attive dei protagonisti e al contempo difficile provare altro che pietà, compassione ed empatia per le vittime. Questo perché il pubblico bianco a cui il film si rivolge non può immedesimarsi in un trauma sociale che non ha mai vissuto sulla propria pelle.

Detroit: una guerra che prosegue ancora oggi

Si arriva così al terzo punto, ossia cosa può rappresentare Detroit per chi scopre oggi, dopo George Floyd, la questione afroamericana. Discriminazione, diverse possibilità di accedere a risorse scolastiche ed economiche, pregiudizi e violenza: questi i temibili, seppur invisibili, nemici della comunità afro-discendente, che oggi lotta contro un sistema ontologicamente sbagliato. Le vittime dell’ingiustizia, le vite spezzate e poi finite nel dimenticatoio perché non meritevoli di attenzione mediatica sono tante: per loro è iniziata una nuova guerra, che dal ghetto di Detroit in quel lontano 1967 si è sparsa in tutto il mondo, coinvolgendo giovani di ogni età e provenienza geografica. L’obiettivo? Ottenere giustizia.

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Breonna Taylor: 8 colpi di arma da fuoco

Sfortunatamente Floyd non è stato il solo a perdere la vita per mano della polizia statunitense e, proprio come accadde per l’incidente dell’Algiers Motel, molte delle vittime non hanno ancora ottenuto giustizia. È il caso di Breonna Taylor, morta a causa degli otto colpi di arma da fuoco che l’hanno raggiunta in camera da letto; gli agenti, a detta di svariati testimoni, avrebbero fatto irruzione nell’appartamento in cui viveva con il compagno Kenneth Walker in cerca di stupefacenti. Non essendosi identificati, il compagno della donna ha pensato si trattasse di un’aggressione o di un tentativo di furto e ha reagito sparando un colpo di pistola; i tre poliziotti (Jonathan Mattingly, Brett Hankison e Myles Cosgrove) hanno quindi risposto sparando a loro volta una raffica di colpi alla cieca, uccidendo Breonna. Era la notte tra il 12 e il 13 marzo 2020 a Louisville e in casa non vi era traccia di sostanze illegali: al momento non è stato ancora individuato un colpevole.

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Tony McDade: privato della propria identità di genere e ucciso senza pietà

Un velo di preoccupante omertà è stato steso anche sul caso Tony McDade, un uomo afro-discendente transgender di 38 anni che è stato ucciso dalla polizia lo scorso 27 maggio a Tallahassee, Florida. Il giovane era sospettato dell’assassinio di Malik Jackson e il capo della polizia Lawrence Revelle ha dichiarato alla stampa che Tony McDade fosse stato trovato con una pistola in mano e che un coltello sporco di sangue fosse presente sulla scena. Numerosi testimoni hanno subito smentito la versione riportata dagli ufficiali attraverso video postati su Facebook, in cui raccontavano di aver sentito gli agenti chiamare Tony “ne**o”; la vittima, a detta loro disarmata, era rimasta ferma e stava collaborando, anche se i poliziotti non si erano identificati, ma ciò non è bastato a risparmiargli la vita. E mentre ancora si cerca di ricostruire la verità dei fatti, nei verbali della polizia la vittima viene definita “una donna che si identifica come un uomo”: un ulteriore affronto alla sua memoria, l’ennesima mancanza di rispetto. Tony non ha ancora ottenuto giustizia né è stata provata la sua colpevolezza: l’agente responsabile della sua morte è ora protetto dalla legge della Florida e non si conosce la sua identità.

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L’articolo è stato realizzato in collaborazione con Valeria Verbaro.