Dostoevskij, la non-esecuzione di un pensiero liberale e sovversivo

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Di Alessia Ceci

Il 22 dicembre 1849 Fëdor Dostoevskij scampò per poco da una condanna a morte. Era destinato alla fucilazione, con l’accusa di aver partecipato ad attività eversive. Membro attivo del circolo socialista di Petrasevkij, era interessato da tempo alle questioni sociali e durante le riunioni si era schierato più volte contro le torture, le punizioni corporali nell’esercito e la censura. Aveva inoltre richiesto l’abolizione della servitù della gleba e maggiori garanzie costituzionali, e per le sue idee liberali era stato condannato.

Dostoevskij e il circolo socialista di Petrasevkij

Vasilij Grigor’evič Perov, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, 1872, olio su tela, Galleria Tret’jakov, Mosca, Russia

Il circolo si configurava come una società segreta, in cui alcuni intellettuali si riunivano per discutere della letteratura messa al bando dallo zar Nicola I. Le questioni erano però largamente dibattute anche nei salotti mondani e nessun membro aveva mai manifestato apertamente l’intenzione di rovesciare la monarchia. L’attentato più grave commesso – da Dostoevskij in persona – fu la lettura pubblica di una lettera di Belinskij a Gogol’.

In seguito ai moti del 1848, la Russia sentì la necessità di prevenire ogni possibile focolaio di rivolta. Dostoevskij e le sue idee liberali, manifestate così apertamente, vennero quindi considerate un pericolo per la sopravvivenza dell’impero zarista e la sua condanna una soluzione preventiva. E’ interessante notare come il poeta descrisse nei minimi dettagli le crudeltà e i tormenti a cui vennero sottoposti i prigionieri nei campi di lavoro. Invece, di quei pochi minuti in cui si trovò di fronte alla morte – scrisse – in una lettera al fratello Michail, un testo di sorprendente semplicità e sobrietà, senza nemmeno accennare ai soldati schierati col fucile puntato.

Fëdor Dostoevskij, la condanna

Nella notte tra il 22 e il 23 aprile del 1849 Dostoevskij fu portato alla fortezza di San Pietro e Paolo per degli interrogatori. Ci furono altre ondate di arresti e i prigionieri divennero quasi sessanta. Nessuno fece mai il nome dei cospirazionisti e il capo d’imputazione più solido rimaneva la lettura della lettera di Belinskij. Tuttavia fu istituito comunque un processo, secondo la legge penale militare. E il 16 novembre arrivò la condanna a morte.

La mattina del 22 dicembre i quindici condannati furono prelevati dalle loro celle e condotti con le slitte a Piazza Semënov, dove era già pronto il plotone di esecuzione. Lessero la condanna, gli dissero di baciare la Croce, spezzarono le spade sopra le loro teste e gli fecero indossare degli abiti bianchi, come da rituale. I primi tre di loro furono legati al palo per fucilati. Ne chiamavano tre alla volta; Dostoevskij si trovava nel secondo gruppo. Gli restava un solo minuto per ripensare alle cose più importanti della vita, lo dedicò al fratello Michail di cui abbiamo testimonianza grazie ad una commovente lettera. Ma all’ultimo secondo accadde qualcosa di impossibile: la revoca. Lo zar gli concedeva la ‘’grazia’’ ossia i lavori forzati a tempo indeterminato, in Siberia. Uno ”scherzo” dello zar e soprattutto del destino, che salvò il romanziere da un tragico epilogo.

La lettera di Dostoevskij, datata 22 dicembre 1849 e indirizzata al fratello

‘’Oggi, 22 dicembre, siamo stati portati in piazza Semenov. Lì ci hanno letto la sentenza di condanna a morte, ci hanno detto di baciare la Croce, hanno spezzato le spade sopra le nostre teste e ci hanno fatto indossare i nostri ultimi abiti (delle camicie bianche). Poi tre di noi sono stati legati al palo per essere giustiziati. Io ero il sesto. Ne chiamavano tre alla volta; io mi trovavo quindi nel secondo gruppo e non mi restava più di un minuto di vita’’.

Una volta liberato Dostoevskij chiese di poter vedere il Michail, ma gli venne negato. L’unica cosa concessa fu di nuovo una lettera, in cui scrisse:

‘’Adesso puoi stare tranquillo. Fratello! Non mi sono abbattuto né perso d’animo. La vita è vita dappertutto. La vita è dentro di noi, non fuori di noi. Accanto a me ci saranno delle persone, ed essere un uomo tra gli uomini e restarlo per sempre, e per nessuna sventura abbattersi o perdersi d’animo — è questa la vita, lo scopo della vita. Ora l’ho capito’’.

E poi?

Venne scarcerato cinque anni dopo e costretto a servire l’esercito come soldato semplice per altri cinque anni. Solo nel 1959 riuscì a tornare nella Russia europea. Dieci anni prima scriveva:

«La vita è un dono, la vita è felicità, ogni istante potrebbe essere un secolo di felicità. Si jeunesse savait! (se la gioventù sapesse!)».

E dieci anni dopo nel ’49:

«Fratello! Ti prometto che non perderò la speranza e che manterrò puro lo spirito e il cuore. Rinascerò in qualcosa di migliore».

E’ riuscito a mantenere salda la determinazione? Ha salvato la fiamma della sua passione, la scrittura, le immagini? Quello che sappiamo è che Dostoevskij rivivrà più volte, attraverso i suoi personaggi, l’orrore di quei momenti impressi nella memoria. A tal punto da far dire al principe Myskin nell’Idiota:

“Leggete a questo soldato la sentenza che lo condanna con certezza, e impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? Perché un affronto simile, mostruoso, inutile, vano? Forse esiste un uomo al quale hanno letto la sentenza, hanno lasciato il tempo di torturarsi, e poi hanno detto: “Va’, sei graziato: ecco un uomo simile forse potrebbe raccontarlo”.

Riprese dunque la penna in mano sì e i suoi demoni divennero i migliori strumenti per scavare nei tormenti dell’animo umano, nella miseria, e da questo fondo buio risalire verso le vette più elevate della letteratura.

Alessia Ceci

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