Gus Van Sant, la voce della giovinezza

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Di Redazione Metropolitan

Malinconica e smarrita. Confusa e profonda. Una gioventù così non l’avevamo mai vista, prima del cinema di Gus Van Sant. Regista, sceneggiatore, montatore, musicista e fotografo. Un artista completo che non ha mai smesso di raccontare i giovani e i loro tormenti. In modo indipendente, esente da alcun di tipo di banalità, con uno sguardo d’autore sensibile e sincero. Con la volontà di ascoltare la giovinezza. E di darle voce.

Gus Van Sant - photo credit: web
Gus Van Sant – photo credit: web

Gli inizi sperimentali e “Belli e dannati”

Nato il 24 luglio del 1952 a Louisville, nel Kentucky, Gus trascorre un’infanzia da girovago insieme al padre, commesso viaggiatore. Conosce fin da bambino diverse realtà, che ne influenzeranno la visione artistica. Al college comincia a girare cortometraggi in Super 8 e in 16 mm, maturando un forte interesse verso le tecniche del cinema sperimentale.

Trasferitosi a Los Angeles, dirige “Alice in Hollywood”(1981), un mediometraggio che lo fa conoscere come artista indipendente d’avanguardia, libero dagli schemi formali del periodo. Il primo lungometraggio lo gira nel 1985, raccontando il folle amore non corrisposto tra Walt, giovane proprietario di un negozietto di alimentari, e Johnny, diciottenne immigrato messicano. Con il film “Mala Noche”, il neoregista sfoggia un’originale realismo (sotto influenze pasoliniane) e il tema dell’indeterminatezza, della precarietà, ricorrenti nella sua filmografia.

River Phoenix, in una scena di "Belli e dannati" - photo credit: web
River Phoenix, in una scena di “Belli e dannati” – photo credit: web

Nel 1989 dirige “Drugstore Cowboy” e due anni dopo firma “Belli e dannati”, da molti ritenuto il suo primo capolavoro. Le due opere si affacciano su argomenti allora ritenuti scabrosi, come l’omosessualità, la discriminazione sessuale e la tossicodipendenza, affrontati senza convenienti moralismi. Indimenticabile l’interpretazione del compianto River Phoenix nel secondo film, frutto di una recitazione talentuosa ed istintiva.

La parentesi hollywoodiana, da genio ribelle

Dopo il flop “Cowgirl – il nuovo sesso”(1993) e l’interessante commedia “Da morire”(1995), grottesca denuncia sul potere nocivo della televisione con una Nicole Kidman in splendida forma, arriva la definitiva ribalta. Van Sant gira “Will Hunting – genio ribelle” (1997), tratto da una sceneggiatura originale (premiata con l’Oscar), scritta dagli attori Matt Damon e Ben Affleck, giovani interpreti del film.

Il dramma dell’abbandono di un “diverso”, mascherato dalla violenta ribellione, sarà un successo impreziosito anche dalla recitazione degli attori, Robin Williams su tutti (le sue improvvisazioni geniali gli valsero l’Oscar come miglior attore non protagonista).

Will Hunting - genio ribelle, una scena - photo credit: web
Will Hunting – genio ribelle, una scena – photo credit: web

La trilogia della morte, sublime ritorno al cinema indipendente

Nel 1998 dirige “Psycho”, il remake shot-by-shot del capolavoro di Alfred Hitchcock. Un progetto ambizioso che sarà contestato (al regista verrà assegnato il Razzie Award) e solo alcuni critici comprenderanno la potente riflessione estetica della clonazione delle immagini. L’opera è la reazione personale di Van Sant alla tendenza delle maggiori case di produzione.

Quella di spremere i film per motivi economici, facendone sequel e remake “classici”, che cambiano qualche scena e magari anche il finale dell’originale, prediligendo gli happy ending. Gli anni duemila segneranno il ritorno all’amato cinema indipendente, allo sperimentalismo, dolce casa dell’artista. Firmerà quella che sarà nota come “Trilogia della morte”, iniziata con l’apripista “Gerry”(2002), il racconto di due ragazzi (Matt Damon e Casey Affleck) la cui amicizia verrà messa a dura prova dal deserto.

"Psycho" di Gus Van Sant, una scena - photo credit: web
“Psycho” di Gus Van Sant, una scena – photo credit: web

Elephant di Gus Van Sant

L’anno successivo Van Sant dirige “Elephant”, liberamente ispirato al tragico massacro della Columbine High School, avvenuto nel 1999. Il film, vincitore della Palma d’oro e del premio per la miglior regia al 56° Festival di Cannes, è una sorta di docufiction esasperatamente realistico. La steadycam del regista insegue gli attori non professionisti in lunghi piani sequenza, che immergono lo spettatore, distanziandolo al tempo stesso dal dramma mostrato.

Il titolo è un’allusione alla tipica espressione dell’elefante in una stanza, metafora di un problema che tutti vedono, ma che viene ignorato e che indurrà nello spettatore un senso di inquietudine e colpevolezza per quanto accaduto alla Columbine. A chiudere il cerchio è “Last Days”(2005), atipico e sorprendente racconto degli ultimi giorni di vita di una rockstar interpretata da Michael Pitt ed ispirata a Kurt Cobain.

Il montaggio della pellicola mescola i piani temporali e i ritmi del film troppo compassati saranno oggetto di critica negativa. Ma ancora una volta il tema di una gioventù “lanciata nel vuoto”, verrà investigata da Van Sant e affrontata con una sincera malinconia.

Elephant, una scena - photo credit: web
Elephant, una scena – photo credit: web

Adolescenza paranoica e il ritratto di Harvey Milk

Dopo la consacrazione artistica, Gus esplora il mondo degli skaters nel film “Paranoid Park” (2007). Ancora una volta la giovinezza sarà costeggiata dalla morte e dalla violenza nella società americana, con il mondo degli adulti ancora troppo distante, troppo assente. Nel 2009 dirige l’amico Sean Penn in “Milk”, film biografico sulla vita di Harvey Milk, primo consigliere comunale apertamente gay, assassinato nel 1978.

L’opera, premiata con l’Oscar alla miglior sceneggiatura e con la statuetta per il miglior attore protagonista, è l’occasione per Gus di “recuperare” i ragazzi perduti, protagonisti delle sue pellicole. Salva i belli e dannati dei quartieri malfamati e del cattivo sistema, raggruppandoli nella “Casta” di Milk, l’uomo della svolta.

Milk, una scena - photo credit: web
Milk, una scena – photo credit: web

La guida degli adolescenti abbandonati al loro destino

Nel 2011 commuove il pubblico con il delicato e struggente melodramma “L’amore che resta”, mentre due anni dopo torna a dirigere l’amico Matt Damon nel film “Promised Land”. Lo stesso anno si presta come attore in “The Canyons”, diretto da Paul Schrader. Nel 2015 torna a Cannes con “La foresta dei sogni”, affidando la parte protagonista a Matthew McConaughey. La sua opera più recente è “Don’t worry”, con la quale racconta la storia del fumettista John Callahan, interpretato da Joaquin Phoenix.

Omosessuale dichiarato, Gus Van Sant ha sempre affrontato il tema della discriminazione, a carte scoperte. Libero dalle richieste del mercato. Negli anni ha coltivato una forte passione per la fotografia, distinguendosi nella ritrattistica. Ha pubblicato due album musicali: “Gus Van Sant” e “18 Songs About Golf” e si è destreggiato nella pittura. Un artista a 360 gradi.

Gus Van Sant, con River Phoenix e Keanu Reeves - photo credit: web
Gus Van Sant, con River Phoenix e Keanu Reeves – photo credit: web

Ma non si è mai stancato di raccontare ragazzi sensibili, vittime del tormento e delle angosce di una società americana piena di buchi neri. Adolescenti a cui sono state voltate le spalle, abbandonati al loro destino. Troppo spesso senza una guida lì a proteggerli. Ad aiutarli nell’inseguimento dei propri sogni da outsider, tra gli ostacoli della vita.

Da bambino sognavo di fare il pittore, poi ho suonato in una band, ho scritto racconti, finché ho pensato che fare un film potesse comprendere tutte queste cose”.

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