“Il Vento conosce il mio nome”, la nostra recensione dell’ultima fatica della scrittrice cilena Isabel Allende. Uscito il 12 Settembre, racconta in 320 pagine il dramma dell’emigrazione forzata e la sofferenza dei più piccoli che sono le indiscusse vittime di un mondo crudele che li vuole deumanizzati fin dai primi anni di vita. La scrittrice latino americana di maggior successo al mondo, ci restituisce un romanzo che di romanzato ha ben poco. In un periodo in cui il dramma dell’immigrazione è un argomento da prima pagina, leggere il suo libro potrebbe essere molto utile.
Samuel, Anita e il dramma dei minori non accompagnati
1938, Samuel Adler è un bambino ebreo di sei anni il cui padre scompare durante la Notte dei cristalli, quando la sua famiglia perde tutto. La madre, per salvarlo, lo mette su un treno che lo porterà dall’Austria all’Inghilterra. 2019, Anita Díaz, 7 anni, sale su un altro treno con sua madre per sfuggire a un pericolo imminente nel Salvador e cercare rifugio negli Stati Uniti. Ma il loro arrivo coincide con la nuova politica di separazione famigliare, e Anita si ritrova sola e spaventata in un centro di accoglienza a Nogales. Le vite di questi due personaggi si incrociano poi negli Stati Uniti quando ormai Samuel è un uomo anziano e Anita è una bambina piena di cicatrici e sofferenze. Si aiuteranno a guarire a vicenda dai loro demoni, così lontani nel tempo ma così terribilmente simili.
“Il vento conosce il mio nome” parla proprio di questo. Passato e presente si intrecciano, come spesso succede nei romanzi della Allende, per raccontare una vicenda che amaramente si ripete nel corso della storia. In modalità diverse e in contesti agli antipodi. Al centro però, c’è sempre la violenza, la speranza spezzata e il dramma di bambini e famiglie che si vedono costretti a lasciare tutto e a ricostruirsi una vita quanto più decente possibile. Il romanzo, edito da Feltrinelli, racconta la storia di due bambini che vivono la stessa dolorosa separazione dalla famiglia e si ritrovano in una terra non loro a dover sopravvivere per andare avanti.
“Molti anni fa, ho visto uno spettacolo teatrale sul cosiddetto “kindertransport”, un sistema di trasporto sperimentale istituito dal governo britannico che ha salvato dall’Olocausto diecimila bambini ebrei, e così ho iniziato a fare ricerche. I genitori caricavano i loro figli sui treni per salvarli dai nazisti. Il novanta per cento di quei bambini non ha mai rivisto la propria famiglia. La vicenda di queste persone che hanno messo i propri figli su un convoglio ferroviario diretto verso una destinazione sconosciuta, senza alcuna certezza che sarebbero stati accolti da brave persone, mi ha portato a chiedermi: “Sarei disposta a fare altrettanto, nonostante l’indicibile sofferenza che mi causerebbe?”. La verità è che non lo so. Tuttavia, ho colto il collegamento tra questa storia e ciò che sta accadendo oggi nell’ambito dell’immigrazione, con tanti genitori disposti a fare qualsiasi sacrificio pur di liberare i loro figli dalla povertà e dalla violenza. Li mandano via da soli o, in molti casi, li accompagnano negli Stati Uniti, dove però sono costretti a separarsi da loro: i genitori vengono espulsi, mentre i figli finiscono in case di accoglienza o in rifugi. Non esiste una prassi per il ricongiungimento. Quei bambini sono abbandonati a loro stessi e i genitori non sanno nemmeno dove si trovino. È una cosa che mi sconvolge”.
Isabel Allende. Intervista a Vogue Italia
“Il Vento conosce il mio nome”, disperazione e speranza
Il romanzo della Allende non vuole però parlare solo di sofferenza ma anche di speranza. L’autrice dedica gran parte del libro alla figura di una donna straordinaria, americana ma di seconda generazione, che insieme ad un avvocato italo americano si dedica anima e corpo alla salvaguardia dei minori migranti non accompagnati. Proprio grazie a questa donna e al suo amico avvocato la vita dei due protagonisti cambia. L’accento sul lavoro che queste figure professionali svolgono è molto interessante. In tempi come questi, in cui è più facile pensare che tutti vogliano solo riuscire ad ottenere un tornaconto personale nella vita, mettere in evidenza il fondamentale ed essenziale lavoro di queste persone è molto importante.
“Tutti sappiamo delle tragedie, abbiamo visto i bambini in gabbia nei centri di detenzione, ma non sentiamo quasi mai parlare di chi sta prestando aiuto ai migranti. Ci sono 40mila avvocati che rappresentano i bambini migranti nelle corti. E per il 90% chi si impegna per aiutarli, tra avvocati, psicologhe, maestre lavoratrici sociali, sono donne, perché è un lavoro che non porta gloria, serve fatica e compassione”
Isabel Allende. Intervista ANSA
Il romanzo, come tutti quelli della scrittrice cilena, si legge tutto d’un fiato. Facile empatizzare con i protagonisti e con il loro dramma. Interessanti tutti i punti di vista e si capisce bene che la scrittrice sa bene di cosa parla. La sua famiglia ha vissuto in prima persona il dramma dell’espatrio e tutto quello che ne consegue dopo essere “accolti” in uno stato straniero. Tra l’altro la Allende ha una fondazione alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, che si occupa proprio di lavorare con i rifugiati. Due storie che, seppur diverse da un punto di vista geografico e storico, mettono in evidenza l’unica cosa che accomuna tutte queste persone: la sofferenza. Probabilmente per qualcuno i migranti e i rifugiati sono solo numeri. Difficilmente ci si mette nei panni di questa gente se non si è vissuta una vicenda similare. “Il vento conosce il mio nome“ può aiutare!
“Nessuno sceglie di abbandonare tutto e fuggire: si fa per disperazione.”
Ilaria Festa
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