Intervista allo scrittore Marco Franzoso: autore del libro “La lezione”

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Di Redazione Metropolitan

Il 12 aprile è uscito in tutte le librerie il suo ultimo romanzo “La lezione“, edito per Mondadori, così lo scrittore Marco Franzoso torna con un nuovo libro dai sapori thriller. In occasione di questa nuova uscita Metropolitan Magazine lo ha intervistato. Ecco come lo scrittore si racconta:

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? C’è un aneddoto o un ricordo che vorrebbe condividere legato alla scrittura del romanzo?

«Era da anni che mi girava per la testa il personaggio della protagonista, ma non riuscivo mai a metterla a fuoco fino in fondo. Poi, due anni fa, pochi giorni prima del lockdown, l’ho miracolosamente incontrata. O meglio, si è seduta nel tavolino a fianco al mio mentre facevo colazione. Dal primo istante non ho avuto dubbi che fosse lei. È stata una specie di folgorazione, e l’ho osservata mentre faceva l’ordinazione, o leggeva il giornale, o mandava dei messaggi al telefonino. Avrei voluto conoscerla, chiederle di lei, raccontarle la storia che volevo scrivere. Ma quando si è alzata non ho fatto niente, l’ho semplicemente osservata camminare, pagare e uscire dal locale. A quel punto era chiaro, non restava che scrivere, e inventare io i pezzi mancanti. Non è stato difficile, ormai conoscevo bene la strada, e la figura di quella ragazza mi ha sempre fatto da riferimento ogni volta che avevo dei dubbi.»

Spesso si cade nel cliché della donna indifesa, quasi incapace di poter pensare alla violenza o in grado di fare del male, qui invece si mostra l’opposto, non una donna che viene rapita ma che diventa lei stessa il rapitore. Come si è trovato con questa nuova prospettiva?

«Volevo raccontare una situazione tragica. Come nella tragedia greca ci sono degli eventi senza via d’uscita, e il protagonista si trova di fronte a un dilemma che deve sbrogliare da solo. Più che risolvere, deve decidere da che parte stare. Volevo osservare come poteva reagire a una situazione di questo tipo una giovane donna normale. Tanto più che in certi casi nessuno sembra poterti aiutare. Ho voluto raccontare un personaggio che ad un certo punto reagisce. E volevo stare a vedere cosa succedeva in lei e nel mondo che la circonda. Volevo fare esplodere quel mondo e osservare le conseguenze dell’esplosione.»

Ci sono state particolari difficoltà nella scrittura della storia? Un punto in cui magari non sapeva come uscirne o che linea narrativa dare?

«Sapevo dove volevo arrivare. Avevo voglia di scrivere un thriller, un romanzo in cui avvinghiare il lettore alla pagina, attaccarlo lì, fargli porre ad ogni piè sospinto la domanda: “E adesso cosa succede?” Allo stesso tempo volevo che fosse un romanzo corale, pieno di personaggi, di incontri, di confronti e conflitti. Mi sono divertito molto nel farlo, anche se non sempre è stato facile. Ma le difficoltà per chi scrive aumentano piacere.»

In un’intervista per Padovando Magazine ha dichiarato che: “Scrivere significa raccontare storie che mi raccontano”.
Come il libro rispecchia al meglio questa frase?

«I romanzi sono sempre lo specchio di chi li scrive, e l’obiettivo finale dello scrittore è che diventino lo specchio anche di chi legge. In questo caso specifico ho provato una forte identificazione con il personaggio femminile. In un primo tempo l’ho osservato, ma poi l’immedesimazione è stata tale che ho semplicemente dovuto pensare a come mi sarei comportato io di volta in volta, e alle emozioni che avrei provato nelle varie situazioni in cui il mio personaggio si trovava. È stato un bel viaggio, parallelo, nel mondo esterno, delle relazioni sociali e della vicenda, ma anche nel mio mondo interno. Elisabetta, la protagonista, mi aiutato a conoscermi meglio.»

Nel libro emerge molto forte il tema di quanto il mondo rimane indifferente alla persona che di conseguenza tende, con il passare del tempo, a nascondersi dietro una maschera apparente e costruita negli anni. Quanto trova riscontro nella quotidianità con questo punto di vista?

«C’è proprio una frase specifica in cui parlo di questo. “Il problema si manifesta quando la vita esteriore ti prende troppo spazio, e tu non capisci più se quello in cui sei finita è il tuo posto o il posto in cui ti sei nascosta per confonderti con la normalità degli altri.” Credo che a molti di noi, ad un certo punto della vita sia capitato di porsi domande simili. Credo che il mondo nel quale viviamo ponga sulle persone e sugli individui delle pressioni che alle volte si rivelano schiaccianti. Capire chi si è davvero e se la vita che facciamo ci riguarda e rispecchia davvero la nostra natura alle volte risulta difficile. Forse risulta sempre più difficile. Ma è questo che dobbiamo fare: riappropriarci della nostra esistenza.»

Visto il mio interesse verso il cinema volevo chiederLe: dopo la trasposizione cinematografica di Saverio Costanzo del suo libro “Il bambino indaco”, quest’altro romanzo lo vedrebbe bene per un altro film? Se si e se Lei potesse scegliere qualsiasi regista a chi lo affiderebbe?

«Non so, so che mentre scrivevo più che un film la sera amavo guardarmi qualche buona serie televisiva, e ce ne sono davvero di eccellenti. Mi piace molto l’idea del ritmo e della dilatazione del tempo caratteristica delle serie televisive, e forse questo romanzo ha più attinenza con la serialità che col cinema. Mi piace pensare a un’evoluzione ‘lunga‘ della protagonista e delle sue relazioni sociali e del loro sviluppo. E poi, credo che verrebbe valorizzato il suo rapporto in crescita col suo antagonista, Walder, la parte oscura. Il male, che alle volte attrae tutto a sé, e tutto fagocita. Finché, appunto, un personaggio apparentemente normale e ordinario, non si oppone e dice basta.»

Francesca Agnoletto