Nato l’ 8 luglio 1621 a Chateau-Thierry, Jean de La Fontaine è un noto letterato francese che visse nell’epoca del Re Sole. Ispiratosi, principalmente, alla tradizione classica e medievale, la peculiarità delle sue favole risiede nei personaggi; La Fontaine, infatti, dona un aspetto antropomorfo ai suoi protagonisti, denotandoli di caratteristiche prevalentemente umane descrivendo, in questo modo, vizi e virtù degli uomini. Nel nuovo appuntamento della rubrica Letteratura per l’Infanzia, le favole per bambini che parlano agli adulti di ogni epoca.

Jean de La Fontaine, favole antiche e riflessioni sull’uomo di ogni tempo

Jean de La Fontaine, Favole - Photo Credits: abebooks.fr
Jean de La Fontaine, Favole – Photo Credits: abebooks.fr

Una personalità contrastante ricca di turbolenze emotive. Jean de La Fontaine si definiva «anima inquieta e ovunque ospite di passaggio» . Le sue favole sono perpetuatrici di quella che era l’antica tradizione medievale francese, basata su narrazioni satiriche dove, gli attori, sono personificazioni di animali; ma anche adattamenti di testi antichi provenienti dalla letteratura classica, nella fattispecie, EsopoFedroLaurentius Abstemius, e testi di Orazio. Jean de La Fontaine , nelle sue favole, crea un mondo popolato da animali parlanti che simboleggiano vizi e virtù di ogni uomo; ogni animale è allegoricamente associato a una caratteristica tipicamente umana: così, la tartaruga rappresenta la lentezza e la saggezza, la lepre velocità e superficialità , il leone la superbia e la prepotenza.

Quello che si pone come obiettivo è tratteggiare le miserie di quella commedia che è la natura umana, attraverso una delicata ironia. I suoi racconti, sono quindi uno specchio della società ma, soprattutto, una riflessione sull’uomo. Grazie alle varie conoscenze illustri, tra cui il duca di Bouillonriesce a mettersi al servizio della duchessa d’Orléans. Qui, conoscerà Molière. Nel 1668 pubblica i primi sei libri delle Favole, nel 1679 altri cinque e l’ultimo nel 1694. Le Favole erano dedicate al Delfino di Francia, figlio di Luigi XIV, il Re Sole, e di Maria Teresa d’Austria.

Satira e ironia: quando le favole sono un mezzo per alludere alla realtà sociale e indurre alla riflessione sull’uomo

Nelle favole di Jean de La Fontaine non confluisce mai un’esperienza personale. I suoi testi ambiscono ad una fotografia letteraria, in primis, della società francese ma, principalmente, dell’umanità in genere. Un gioco dialogico costituito da una fine satira traccia, quindi, le caratteristiche dell’umanità.  l’unione fra umorismo e sarcasmo elegante e non dispregiativo è il segreto il successo delle sue opere: con la leggiadria dei toni, usa proprio le favole, un genere poco consono per delineare vizi e virtù di un uomo, per alludere a tematiche sociali e politiche. Le favole di Jean la Fontaine si propongono di indagare su aspetti dell’esistenza prevalentemente amari e realistici; ne traspare una visione pessimistica della vita, quasi rassegnata, allegoria di un’umanità intrisa di finitezza, come la natura dell’uomo vuole. Un’altra caratteristica dei suoi testi è che, le favole, sono presentate in versi. Colpisce, poi, l’anarchismo lessicale di Jean de La Fontaine : uno stile sciolto e scevro da schemi preimpostati, seppur, raffinato e fantasioso. 

La critica di Rousseau: favole troppo filosofeggianti per un pubblico infantile

Jean-Jacques Rousseau ritenne che le favole proposte da Jean de La Fontaine, fossero inadatte ad un pubblico infantile, poiché troppo retoriche e filosofeggianti. I ragazzi che vi si accostavano si immergevano in un mondo apparentemente ludico, ma dall’alta morale. Non considerò che le favole fossero un teatrino e gli animali delle maschere, capaci di indurre il lettore al divertimento e alla riflessione. Le favole dell’autore francese si contraddistinguono per le lezioni morali poste alla fine di ogni racconto; pedagogicamente interessante da un lato, poiché forniscono una sorta di spiegazione razionale della favola. Dall’altro, tuttavia, potrebbero togliere al lettore la libertà interpretativa.

Jean de La Fontaine, la favole più famose e gli insegnamenti più noti

La Volpe e l’Uva, Il Leone e l’Agnello, Il Corvo e la Volpe; sono molte le favole che, negli anni, sono diventate talmente note da appartenere a una cultura comune e, addirittura, proverbiale. Una delle più note, considerando il periodo estivo, è La Cicala e la Formica, emblema del duro lavoro costante per essere al sicuro in tempi difficili:

La Cicala che imprudente
tutto estate al sol cantò,
provveduta di niente
nell’inverno si trovò,
senza più un granello e senza
una mosca in la credenza.

Affamata e piagnolosa
va a cercar della Formica
e le chiede qualche cosa,
qualche cosa in cortesia,
per poter fino alla prossima
primavera tirar via:
promettendo per l’agosto,
in coscienza d’animale,
interessi e capitale.

La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che cantare
tutto il tempo. – Brava ho gusto;
balla adesso, se ti pare.

Una delle favole più emblematiche e note, specialmente nelle pagine delle antologie, contenuta nel Libro Primo. La formica, qui, simboleggia la prudenza e la laboriosità, ergendosi a simbolo del duro e instancabile lavoro. La cicala è il simbolo della bellezza, del canto anche dell’ozio e della spensieratezza riguardo alle cose fondamentali della vita. La morale intima a essere previdenti, senza sprecare tempo non pensando al futuro per poi sperare in un aiuto da chi invece ha lavorato duramente. La formica è quindi il modello ideale da seguire; Nella favola, formica e cicala sono le rappresentazioni di virtù da imitare e vizi da biasimare. Colpisce poi, il divertente cinismo della formica nell’ultimo verso: chi non fa nulla, si ritrova con il nulla, meritatamente.

Il Topo e l’Elefante

Una favola meno famosa rispetto alle classiche ma che offre un grande insegnamento: a volte la troppa boria è deleteria. Nella speranza di aver di più si può perdere quello che si ha già:

La vanità, ch’è tutto un mal francese,
fa ch’ogni sciocco e stupido borghese,
un grand’uomo si creda in quel paese
.

Vani son gli Spagnoli e tuttavia,
per quanto grande il lor difetto sia,
è più che scipitezza una pazzia.

L’esempio che vi conto vi dimostra
la boria nostra, la qual su per giù
non vale men di un’altra e non di più.

Un Topolin piccino
vide un grosso Elefante gigantesco,
e rise di quel grande baldacchino
pesante ed arabesco,
con tre piani di sopra e una sultana
seduta in mezzo di beltà sovrana,
con cani e gatti e pappagalli suoi,
e con tutta una casa che in viaggio
andava ad un lontan pellegrinaggio.

Rideva il Topolin perché la gente
stesse a guardar quel coso stravagante,
più che animale, macchina ambulante.

– Bel merito, – dicea, – d’esser sì grosso,
come se il bello fosse in un colosso…
O gente sciocca, ov’è la meraviglia
che ai ragazzetti fa levar le ciglia?
Così piccino come son, un grano
non valgo men di questo pastricciano -.

E stava per aggiungere di più
il Topo vanerello.
Quand’ecco sul più bello
un gatto salta giù
e fric… in un istante
mostrò che un Topo è men che un Elefante.

Questa favola ripresa da Jean de La Fontaine si trova nel Libro Ottavo. La morale è che è del tutto inutile invidiare gli altri, condannando la boria e la vanità rappresentata dal topo. La troppa alterigia, spocchia e prosopopea finisce sempre per far perdere anche quello che si possiede.

Stella Grillo

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