Kingdom of Dreams, su NowTv la Golden Era della moda

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Di Benedetta Vicanolo

C’era una volta, non così tanto tempo fa, un mondo in cui il confine tra realtà e inimmaginabile era confuso, irrisolto, labile e anche seccante. Kingdom of Dreams racconta quel mondo, quel tempo e gli stravaganti personaggi che lo hanno abitato. C’è proprio di tutto nella nuova miniserie di HBO: i buoni, i cattivi, i cavalieri, i colpi di scena, le inaspettate rivelazioni, la morte e una guerra che prende l’arco di quasi un decennio combattuta a colpi di borsette griffate. Kingdom of Dreams è la storia della nascita del mondo della moda così come lo conosciamo oggi, ma anche del declino – e dell’abbandono – di coloro che quella storia l’hanno scritta.

Kingdom of Dreams è la nuova serie della Golden Era della moda

John Galliano, Sfilata Dior

A John Galliano, Alexander McQueen, Tom Ford e Marc Jacobs va il merito di aver cambiato totalmente la moda, togliendola dai regimi elitari delle grandi passerelle e rendendola un fenomeno globale. Questi stilisti tra di loro hanno poco in comune ma, anche per i non addetti ai lavori, risulta chiaro l’incredibile talento artistico, il lungimirante desiderio di scardinare il preordinato. La serie si concentra principalmente su questi quattro stilisti e su come sono stati risucchiati dal vortice di imperi milionari, che poco avevano a che fare con una visione creativa precisa. Infine, Kingdom of Dreams scuote il veto dietro il quale si nascondo i successi e i fallimenti delle grandi casate di moda: Bernard Arnault e  François Pinault.

L’euforia dell’arte

Quando John Galliano si laurea al Central Saint Martins College of Art and Design con una collezione ispirata alla Rivoluzione francese chiamata Les Incroyables, appare chiaro fin da subito l’elettrizzante personalità dell’artista. Preso sotto l’ala protettrice di Anna Wintour, grazie a una sfilata di pochissimi capi neri – perché i tessuti neri costavano meno – John Galliano diventa direttore creativo di Dior. Ma Galliano era forgiato dalla cultura dei club queer che si respirava a New York, a Londra: cosa poteva mai offrire il primo direttore straniero alla maison più importante del panorama del lusso? La teatralità, la storia di donne bellissime e decadenti, contaminate da atmosfere senza confini, che parlano di lusso ma anche di distruzione. Ogni sfilata Galliano alza sempre più l’asticella dell’eccellenza, tutti parlano di Dior; Gerard Arnault, proprietario di alcuni dei più importanti marchi di lusso, gli lascia completa carta bianca per le sue creazioni. Dior mantiene il suo direttore creativo fino al 2011, durante questi anni le sfilate si fanno più maestose, teatrali: Galliano stesso sfila insieme alle sue modelle per sfoggiare outfit sempre più stravaganti ed elaborati. In quegli anni Galliano raggiunge circa 32 collezioni all’anno, muore il suo più grande amico e aiutante, Arnault lo trincera in un vuoto fatto di soldi e solitudine. Inizia ad avere problemi con l’alcol e le droghe, non dorme più: il mondo si è preso da lui tutto quello voleva, lasciandolo solo, nudo con il suo enorme, ingombrante narcisismo. La gente, se lo vede a bere da solo nei bar, lo ferma per fargli scherzi stupidi e riprenderlo mentre si mette in ridicolo. Fino a quando, ubriaco, non lancia gravi insulti a sfondo razzista alla ragazza che riprende. Finisce così la carriera di Galliano da Dior.

Di Alexander McQueen sembra che tutti ne conoscano la storia, ma in realtà pochi racconti hanno saputo toccarmi nel profondo come l’incredibile onestà con cui Kingdom of dreams racconta McQueen. Un ragazzo che sembrava viaggiare nell’iperspazio tanto le sue collezioni sono avanguardistiche, topiche e provocatorie. Nel 1995 presenta una collezione in cui esplora il tema della violenza sessuale, mettendo in scena la sofferenza delle vittime di stupro; oppure ancora nel 2003 si concentra sulla sofferenza e la solitudine umana. Noto come il gemello oscuro di John Galliano, Alexander McQueen, fin dal suo arrivo in Givenchy, soffre l’amore di un padre, Gerard Arnault, che non lo riconosce come figlio e che, alla fine, gli farà commettere l’atto patricida di passare ai nemici, all’ala protettiva di Tom Ford e François Pinault. Qui Alexander trova una nuova casa, in cui poteva raccontare gli abiti che voleva, nell’ambiente che voleva, circondato dalle persone che lo stimolavano di più: gli inglesi. McQueen ha odiato ogni singolo momento vissuto sulle altisonanti passerelle parigine perché al fatturato richiesto da Arnault, McQueen richiedeva una visione che raccontasse la sensibilità umana, la stessa che lo stava lentamente logorando.

Non c’è vita e non c’è morte

Alla fine, della morte e del declino, a Kingdom of dreams piace raccontare poco, perché davanti alla pornografia del dolore vince l’esaltazione dell’arte, di visionari, di sogni che sono stati realizzati. Kingdom of dreams sorvola facilmente – forse troppo – sui giudizi o sulle colpe di un mercato in rotta di collisione con ciò che noi oggi consideriamo eticamente e moralmente giusto. E questo porta a chiedersi se non è stata proprio la mancanza assoluta di consapevolezza ad essere il fuoco promotore di nuove leggende. Non che di leggende già non possiamo parlare viste le ultime collezioni di artisti come Alessandro Michele, Oliver Rousteing, Pierpaolo Piccioli o Demna Gvasalia. Una nuova generazioni di designer si sta formando, cresce impavida davanti alle sorti capitalistiche del sistema. Ci sono ovunque esempi di incredibile resistenza allo sfruttamento degli acquisti tramite lo stato dell’arte. Rimane quindi da parlare d’innovazione, di svolta epocale, in grado di cambiare lo schema di visione. Rimane da parlare di una prospettiva che non ricalchi il già visto e il già sentito e che racconti l’umanità al di là dei suoi preziosi materiali. In fondo, chissà cosa avrebbe pensato McQueen della sfilata di Coperni in cui un braccio meccanico crea l’abito di Bella Hadid? Forse che lui l’aveva già fatto trent’anni prima.

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Benedetta Vicanolo