In un periodo storico in cui garantire la continuità della reperibilità delle materie prime è un’obiettivo comune per l’industria italiana, i grandi colossi espandono il loro dominio nella manifattura della moda, acquistando fabbriche e centri produttivi. Questo rappresenta un’opportunità di guadagno per le istituzioni che raddoppia i costi produttivi e l’export di beni di lusso, ma si muove a sfavore dei piccoli brand che si impegnano a mantenere la propria produzione certificata Made in Italy. E se alla diminuzione dei materiali e l’aumento dei loro costi d’acquisto, si aggiunge la graduale scomparsa dei fabbricanti indipendenti, artigiani dell’italianità, le istituzioni governative, insieme alla moda, devono disegnare un nuovo modello produttivo che tuteli non solo i grandi nomi ma anche i brand della nuova generazione dai fondi ristretti.

Made in Italy: i brand e la nuova produzione interna

Conceria in Toscana - Photo Credits fashionmagazine.it

Le interruzioni produttive dovute dall’emergenza sanitaria, seguite dall’inflazione, hanno appesantito fornitori e creato ritardi nella produzione. Per evitare che si possa rimanere senza rifornimento di materie prime, diversi brand, con i rispettivi gruppi di proprietà, stanno valutando di rendere la produzione interna, acquistando le fabbriche di pelli e tessuti. Alcuni brand stanno anche valutando di collaborare nell’acquisto. Tra i casi italiani, il più noto è quello di Prada ed il Gruppo Zegna che hanno già acquisito il 15per cento di Luigi Fedeli e Figlio, produttori di maglieria, subito dopo aver ottenuto la maggioranza di un altro fornitore di lana, Filati Biagioli Modesto. L’obiettivo è quello di verticalizzare e controllare i propri processi produttivi senza dipendere da attori esterni. Ma se da una parte questo contribuisce all’ottimizzazione di distribuzione del prodotto, ad un totale controllo sulla tracciabilità del prodotto con più garanzie qualitative, dall’altra vi perde l’accessibilità, perché così andando l’Italia della lavorazione delle materie prime potrebbe divenire ‘’privata’’. Una privatizzazione che si muove contro la nuova generazione imprenditoriale della moda, che si vede, sin da subito, a dover affrontare costi raddoppiati senza ancora aver ottenuto un primo guadagno.

La produzione è il nuovo lusso

Gli esperti riconoscono in questo divario economico una delle priorità per il dibattito tra moda ed istituzioni, ma ad ora i vantaggi della privatizzazione sono maggiori. Così, la possibilità che un gruppo di nomi del lusso monopolizzi la produzione italiana di lana e filati, insieme a quella di pellame e cotone, aumenta. Di recente Dior ha comprato un mobilificio per renderlo una fabbrica di pelletteria , Fendi ha aperto la sua nuova fabbrica sostenibile a 40 minuti da Firenze, ed il gruppo del lusso di Arnault ha appena rilevato la conceria Nuti Ivo, sempre in Toscana. Queste fabbriche hanno sicuramente il compito di mantenere attivo il know-how artigianale, ma stanno acquisendo l’intero spazio produttivo delle regioni del Made in Italy, dove non solo non ci sono più concerie aperte al pubblico, ma sta finendo anche lo spazio su cui aprirne di nuove. Di recente, Remy Daguillard, fondatore di Stella International, in un intervista ha detto:

‘’in Italia è attiva una sorta di gara per accaparrarsi nuovi siti produttivi. Una gara valida solo però per i grandi brand con ampie risorse da investire. Questo è il primo segno di un mutamento del lusso che diviene sempre più tale, anche per i suoi stessi rappresentanti’’

I piccoli brand e la difficoltà produttiva

Ma perché il processo di acquisto diventa sempre più continuativo? Per i colossi fashion la possibilità di interruzione della catena di approvvigionamento di materie prime assume la priorità, perché, con l’aumentare delle richieste da parte del pubblico, si deve essere i primi a consegnare il prodotto finito, garantendo l’immediatezza. Ma questo, di dimensioni quadruplicate, si presenta anche per i piccoli brand indipendenti che si vedono obbligati a considerare alternative con tempi di produzione più lunghi, materiali più economici e manodopera più bassa. Strategicamente, poi, non tutti i brand, quando acquisiscono una parte delle fabbriche, rendono totalmente privata la produzione, ma è chiaro che la fabbrica darà sempre la precedenza al suo finanziatore. E poi basterebbe al finanziatore imporre alla fabbrica di non collaborare con alcuni specifici brand, per impedire a questi di rimanere lontani dalle maestranze produttive. Non sempre è così, ma in un industria in cui anche i big spender diventano sempre più prudenti con le spese, la possibilità assume un valore primario.

Luca Cioffi

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