Lucio Fulci, l’artigiano che manca al cinema di oggi

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Di Redazione Metropolitan

Rivoluzionario, versatile, invadente e provocatorio. Lucio Fulci, il cinema lo ha affrontato sempre senza pregiudizi, spingendosi oltre le regole “classiche” dei generi. La verità è che il regista romano disegnava dipinti magnifici, visionari, fuori tempo. Stravolgendo e sconvolgendo, le sue opere rimangono nella mente di chi le vede come un impronta sul cemento, come una solida ragnatela. Un artista a tutto tondo, libero e senza freni.

Lucio Fulci – photo credits: web
Lucio Fulci – photo credits: web

Totò, Celentano e i primi approcci ai generi

Nato a Roma il 17 giugno del 1927, Lucio Fulci approda nel mondo del cinema quasi per caso. Terminato il liceo, si iscrive alla facoltà di medicina, ma non terminerà gli studi (anche se alcune nozioni anatomo-patologiche torneranno utili più in là). Preferisce l’arte, si laurea in lettere e filosofia, va a vivere a casa di amici pittori e presenta spettacoli di musica jazz. È una delusione d’amore a spingerlo ad iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove viene ammesso con il massimo dei voti da Luchino Visconti (nonostante le critiche di Fulci per molte inquadrature presenti nel film “Ossessione”). Nel frattempo, alternava il mestiere di critico d’arte per Il Messaggero a quello di documentarista del cinegiornale “La Settimana Incom”.

Esordisce nell’industria cinematografica in veste di sceneggiatore per il regista Steno. È Fulci ad occuparsi della scrittura del film “L’uomo, la bestia e la virtù” nel 1953, ed è dalla sua penna che nasce Nando Mericoni, interpretato da Alberto Sordi nelle opere “Un giorno in pretura” e “Un americano a Roma”. Diventa poi lo sceneggiatore di molte opere con Totò, che lo richiede espressamente come regista per il film “I ladri”(1959). Lo stesso anno dirige “I ragazzi del Juke-Box”, il musicarello che lanciò nel cinema Adriano Celentano, per il quale Fulci ha anche scritto i classici “Il tuo bacio è come un rock” e “24.000 baci”.

I ladri, una scena – photo credits: web
I ladri, una scena – photo credits: web

A partire dagli anni sessanta si dedica sempre di più alla commedia lanciando definitivamente il duo Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, dirigendoli in una dozzina di film e diventando il loro regista preferito. Nel frattempo inizia a toccare altri generi, dallo spaghetti-western (“Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro”) al dramma cinquecentesco (“Beatrice Cenci”), fino a sollecitare scomode tinte erotiche nel film “Nonostante le apparenze… e purchè la nazione non la sappia… All’onorevole piacciono le donne”(1972), fortemente intralciato dalla censura e dalla Democrazia Cristiana (per un protagonista troppo simile al Presidente del Consiglio).

I primi capolavori rivoluzionari, a tinte gialle

L’inizio degli anni settanta sono segnati dall’avvento nelle produzioni nostrane dei cosiddetti “gialli all’italiana” e Fulci invade il filone con due morbose e innovative perle; escono ad un anno di distanza “Una lucertola con la pelle di donna”(1971) e “Non si sevizia un paperino”(1972), entrambi interpretati da una splendida Florinda Bolkan. Se nel primo film rimane più ancorato alle regole del genere, pur presentando già lampi di talento visivo, con il secondo firma un autentico capolavoro. L’opera, la preferita del regista ed ispirata ad un reale fatto di cronaca avvenuto l’anno prima a Bitonto, verrà stroncata dalla critica (senza troppi sforzi), per poi essere completamente rivalutata nei decenni successivi.

Florinda Bolkan in Non si sevizia un paperino – photo credits: web
Florinda Bolkan in Non si sevizia un paperino – photo credits: web

Non si sevizia un paperino” vanta infatti un ricco ventaglio di innovazioni, nella forma e nel contenuto. In primis l’ambientazione, un sud Italia retrogrado mai affrontato prima in un thriller, dove la superstizione radicale regna sovrana in una realtà contadina dove le credenze guidano l’ordine delle cose. Allo spettatore vengono mostrate scene di violenza girate con eleganza e incastrate in canzoni da “cuore spezzato” (la malinconica “Quei giorni insieme a tedi Ornella Vanoni sarà la colonna sonora dell’omicidio più cruento). È indimenticabile la resa dei conti finale dai tratti onirici, dove la morte brutale del più insospettabile “uomo nero” è intervallata e sovrapposta dai flashback delle sue piccole vittime innocenti. È il primo lungometraggio ad essere realizzato dalla casa di produzione Medusa Film, che garantisce alle potenzialità del regista un budget adeguato, a cui troppo spesso dovrà fare a meno in carriera.

Nel 1977 il regista diventa meno violento e più psicologico con il thriller “Sette note in nero”. L’opera, dal ritmo inquietante e una fotografia disturbante, diventa l’occasione per Fulci di giocare con il pubblico ribaltandone le aspettative sulla visione della protagonista, che solo verso il finale si rivelerà premonitrice. Dallo stile raffinato e una suspense claustrofobica, diventa una pregiata firma con cui il regista chiude il personalissimo ciclo con il genere. Quentin Tarantino, uno dei suoi più grandi ammiratori, ne riprenderà la colonna sonora per una una scena di Kill Bill (2003).

Lucio Fulci – photo credits: web
Lucio Fulci – photo credits: web

L’irruzione nell’horror

Gli anni settanta si concludono con un’altra svolta nella carriera del regista, quella definitiva. Nel 1979 viene chiamato a dirigere Zombi 2, che i produttori avevano pensato come una sorta di copia del film Zombi di George A. Romero, ma ovviamente Fulci ne stravolge i connotati. Ancora una volta prende un genere e lo personalizza, reinventandolo e invadendolo con atmosfere e scene di una crudeltà mai vista prima, senza stacchi di montaggio (stuzzicando il voyeurismo dello spettatore).

Lucio Fulci diventa il “poeta del macabro” e sarà considerato all’estero (in Italia viene ancora visto come troppo estremo) come un maestro dell’horror. Firma la “trilogia della morte” (“Paura nella città dei morti viventi”, “…E tu vivrai nel terrore!L’aldilà” e “Quella villa accanto al cimitero”), con la quale continua a scioccare il pubblico con sequenze splatter estremamente brutali. Toglie la logica a trame sempre più surreali e negative, anche grazie al produttore Fabrizio De Angelis che lasciava il regista libero di sperimentare.

Lucio Fulci – photo credits: web
Lucio Fulci – photo credits: web

Le ultime opere del talentuoso artigiano

Negli anni ottanta si destreggia anche nel fantasy e nella fantascienza distopica dirigendo Conquest (1983) e I guerrieri dell’anno 2027(1984), prima della malattia che lo costringe ad allontanarsi dai set per due anni. Il ritorno non sarà in vecchio stile, spesso a causa di budget troppo bassi. Nel 1988 gli viene commissionata la supervisione di una serie di otto film horror; ne dirige due ma, per l’alto contenuto splatter, usciranno direttamente in videocassetta. L’ultima sua opera degna di nota è “Un gatto nel cervello”(1990), in cui Fulci interpreta se stesso perseguitato da incubi che rimandano ai suoi stessi film, in una sorta di auto-omaggio delirante. Muore nel 1996, per complicanze del diabete, mentre stava lavorando al suo ritorno con il film “M.C.D. – Maschera di cera”, poi diretto da Sergio Stivaletti. Lucio non si è mai fermato, fino all’ultimo giorno.

Era un esteta geniale e le sue opere continueranno a reclutare seguaci. Perchè Lucio Fulci era uno che arrivava dritto, attraverso lampi di genio che lo hanno reso un artigiano del cinema nostrano. Spesso etichettato dai critici dei suoi anni come semplice regista di b-movies (genere che per lui nemmeno esisteva), era un talentuoso estremista, un terrorista dei generi. Anche se non si riteneva così spaventoso; “L’horror lo trovi tutti i giorni nei telegiornali. Io descrivo una paura che è un incubo, ma che poi finisce. Le paure dei telegiornali non finiscono” diceva Lucio Fulci. Uno che inevitabilmente lasciava il suo marchio indelebile. Uno che al cinema di oggi, così pieno di moderati, nei contenuti e negli stili, manca troppo.

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