Nadia Anjuman, la poetessa di Herat: nascere donna in Afghanistan e morire perché si ama la letteratura

Foto dell'autore

Di Stella Grillo

La poetessa di Herat, Nadia Anjuman, uccisa dal marito perché amava la poesia. Nascere donna in Afghanistan significa rinunciare ai propri diritti, alle proprie passioni, alla propria dignità. Nadia ha vissuto i momenti più tragici del regime talebano, per poi morire nel 2005 uccisa dal marito. ”Appoggiarsi alla penna”, come amava dire, ha aiutato Nadia a non cadere nello sconforto; nel 1995 il regime talebano vieta alle donne l’accesso alle scuole statali. Ed è in questo clima tumultuoso che Nadia Anjuman fa Resistenza attraverso la letteratura.

Nadia Anjuman, la ragazza del circolo dell’Ago d’Oro che amava la poesia

Nadia Anjuman marketresearchtelecast.com
marketresearchtelecast.com

La poetessa Nadia Anjuman, nel corso della sua breve vita, ha evidenziato attraverso i suoi versi l’efferatezza e la ferocia del patriarcato in  Afghanistan, l’oppressione crudele verso le donne, i matrimoni imposti; un simbolo di coraggio e Resistenza finito con un brutale femminicidio quando aveva solo 25 anni. Nadia nasce nel 1980 a Herat, la Città dei Poeti, e ha appena 16 anni quando il regime talebano dà inizio alla sua cruenta forma di oppressione verso le donne. Sono gli anni ’90: Nadia frequenta il liceo quando alle donne si vieta l’eccesso alle scuole statali, si nega il diritto al lavoro, allo studio, alle uscite senza essere accompagnate da un membro maschile della famiglia.

In questo contesto di repressione il circolo dell’Ago d’Oro, spazio in cui le donne afghane si riunivano per frequentare corsi di cucito, diventa un circolo letterario nascosto. Una delle poche attività lecite, consentite alle donne, era proprio il cucito;  le ragazze del circolo dell’Ago d’Oro si riunivano tre volte a settimana per partecipare alle lezioni di sartoria che, in realtà, erano vere lezioni di letteratura. Qui Nadia Anjuman fa i suoi primi incontri con quelle personalità letterarie che, in Afghanistan, si ritenevano proibite; Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij, Keats per citarne alcuni. Gli incontri clandestini avvenivano nel pomeriggio: alcuni professori dell’università di Herat facevano leggere alle allieve quei testi considerati proibiti, dando loro spunti e creando dibattiti letterari in modo tale da stimolare confronti.

Se i Talebani avessero scoperto la vera natura di quel circolo di cucito avrebbero sicuramente torturato e poi ucciso le allieve e i professori. Le sentinelle erano i bambini; i bimbi che giocavano nel cortile del palazzo diventano la loro unica forma di protezione verso una morte certa, qualora le avessero colte in flagrante.

L’incontro di Nadia con la letteratura e il matrimonio

Le lezioni segrete protette dalla voce gioiosa dei bambini nel cortile sono il luogo in cui Nadia Anjuman scopre il suo amore verso la letteratura e, principalmente, per la poesia. Il talento artistico di Nadia colpisce l’allora responsabile del circolo, il professore di letteratura Muhammad Ali Rayhab. Nadia ha appena 16 anni quando il professore la incoraggia a dedicarsi alla scrittura inseguendo il suo sogno; consiglio che Nadia seguirà a costo della sua stessa vita. La poetessa di Herat, come molte ragazze afghane, cerca di opporsi a un matrimonio combinato in giovane età; ci riesce ritardandolo per qualche tempo, ma arriva il momento fatidico di prender marito. Nadia Anjuman sposa Farid Ahmad Majid Neia, laureato in lettere, docente di filologia e impiegato presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Herat.

La caduta del regime talebano nel 2001, tuttavia, le consente di studiare Letteratura all’Università di Herat dove si laurea nel 2002. Nel 2005 Anjuman pubblica il suo primo libro di poesie, Fiore di fumo, testo che si rivela popolare in Afghanistan, Pakistan e Iran. Un fiore rosso scuro, invece, è la sua seconda raccolta. Probabilmente la popolarità delle sue opere, le denunce che Nadia raccontava attraverso la sua scrittura, diventano pretesti per quella lite furibonda che porta alla morte la poetessa.

La poetessa che amava la letteratura anche a costo della morte

Era il 4 novembre 2005, Nadia doveva ancora compiere 25 anni, quando il marito la uccise con violente percosse lasciando una bambina orfana di appena sei mesi. Neia confessa di aver picchiato la moglie, seppur dichiari che la morte sia dovuta a un infarto o causata da un avvelenamento compiuto dalla stessa Nadia nel tentativo di suicidarsi. Il marito racconta che Nadia volesse andare a far visita alla sorella, ma che lui non acconsentisse: così si era scatenata una discussione. Nonostante le dichiarazioni di Neia, la famiglia di Nadia racconta che la sua attività letteraria era osteggiata dalla famiglia del marito, e considerata scomoda dallo stesso coniuge, poiché motivo di vergogna.

I medici confermarono che il decesso fosse da imputare a un danno cerebrale dovuto a un trauma cranico, probabilmente riportato durante le percosse. Nessuna autopsia è stata fatta sul corpo di Nadia, per opposizione del marito e della famiglia. In seguito, nonostante l’arresto di Neia,  gli anziani tribali di Herat cercano di convincere il padre di Nadia a perdonare pubblicamente il genero con la promessa che sarebbe rimasto in carcere altri cinque anni. Ritirata la denuncia da parte della famiglia, Neia è libero dopo appena un mese di detenzione e riabilitato al lavoro accademico universitario appena poco dopo. Il padre di Nadia, non riuscendo a sopportare tale sgomento, muore in breve tempo a seguito dello shock.

Nadia Anjuman, la poesia: l’unico luogo per vivere, parlare ed essere sé stessa

La discriminazione di genere in Afghanistan esiste, è reale, e anni di occupazione occidentale non hanno risolto e fatto svanire il problema. La legge sull’Eliminazione della Violenza sulle Donne nel 2009 è sicuramente un traguardo in un luogo dove femminicidi, uxoricidi e stupro erano una ”questione privata” da risolvere fra le mura domestiche; un’altra evidenza di quanto la donna non fosse tutelata, né le fosse riconosciuta una dignità. La dimensione della libertà come diritto, però, è ancora troppo lontana. Nadia, in una nota autobiografica, scrive di sé:

 ”Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. […] L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei stessi orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma, ahimè, tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima”.

L’amore per la scrittura è primordiale, atavico, viscerale; un amore così grande che si intensifica soprattutto negli anni del regime dove scrivere diventa la porta della libertà e dell’immaginazione, il mezzo di conforto, lo specchio dell’anima di Nadia che con tenacia conduce, integerrima, la sua battaglia assecondando una vocazione all’interno di un territorio osteggiato, oppressivo e tirannico. Tutta la produzione letteraria di Nadia è una denuncia alle condizioni della donna; la sua poetica non prescinde dal suo status, quello di essere una donna afghana, anzi ne affonda le radici:

Non ho voglia di aprir bocca
Per cantar cosa, poi…?
Io, disprezzata dalla vita stessa.
Cantare e non cantare? Non c’è differenza.
Perché dovrei parlare di dolcezza
Quando provo solo amarezza?
[…]
Sono nata per il nulla.
Le mie labbra dovrebbero essere sigillate.
Oh, cuore mio, lo senti che è primavera
Ed è tempo di festa.
Cosa posso fare con un’ala intrappolata
Che mi impedisce di volare?
Sono stata zitta per troppo tempo,
Ma non ho dimenticato la melodia,
Poiché continuo a bisbigliare
Le canzoni nel profondo mio cuore,
Per ricordare a me stessa
Che un giorno distruggerò questa gabbia,
E volerò via dalla solitudine
E canterò, con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
Che si piega al vento.
Io sono una donna afghana,
E questo é il mio lamento.

La sua è una ”poetica cronistica”: nei suoi versi riporta la crudeltà di ciò che sente e percepisce, le sue poesie sono intrise di realtà, cronaca, denuncia sociale. Nadia scrive: ‘‘ Io non sono come un debole pioppo che si piega al vento” e poi aggiunge: ”sono una donna afghana”, una locuzione potentissima: una donna a cui, con ferocia, hanno cercato di recidere i sogni e la dignità; e solo attraverso la sconfinata fiducia nella letteratura ha sempre attinto alla speranza, nonostante le oppressioni e le imposizioni.

La voce che ha dato parola alla sofferenza delle donne afghane

In Catene d’acciaio la poetessa riflette e denuncia le innumerevoli volte in cui il suo canto poetico è stato messo a tacere; la gioia, data dalla poesia, si tramuta in tristezza cocente per la mancata libertà di praticarla e amarla alla luce:

Quante volte è stata tolta dalle labbra
la mia canzone e quante volte è stato
azzittito il sussurro del mio spirito poetico!
Il significato della gioia è stato
sepolto dalla febbre della tristezza.
Se con i miei versi tu notassi una luce:
questa sarebbe il frutto delle mie profonde immaginazioni.

[…]

Se l’integralismo immagina le donne come porzioni di carne tutte uguali, che non hanno coscienza, anima e voce le urla tacite dei versi di Nadia Anjuman spezzano questa immagine; un quadro stinto che tende a voler relegare la donna in un universo oppressivo e statico.

Il dolore di Nadia si tramuta in poesia mettendo in primo piano l’amore per la parola a rischio di tutto. Sfidare la morte per la letteratura, per raccontare la sofferenza della donne in Afghanistan in tutta la sua interezza: è questo il senso della poesia per Nadia che, con ostinazione, continua a scrivere senza cedere alla disperazione; raccontare, essere eco delle afflizioni di quelle donne in compagnia del suo scudo, della sua amica più grande, del vascello silenzioso che ha cullato i pensieri della sua giovane vita troppo presto spezzata: la letteratura.

Stella Grillo

Seguici su Google News