I luoghi comuni, si sa, sono sempre i più affollati. Basta guardare Roma per capirlo: quanta gente c’è a Fontana di Trevi, e quanta alla Galleria Sciarra? Stesso rione, fama diversa. Entrambe però sono opere magnifiche, davanti alle quali non si può restare impassibili. Per le convinzioni umane è un po’ la stessa cosa, senza la grandezza dell’arte a far da contrappeso e a donare bellezza. I luoghi comuni sono sempre i più affollati, ma non per questo sono giusti, anzi. Nella maggior parte dei casi, sono il punto di partenza di stereotipi e convinzioni sbagliate che originano da nient’altro che dalla veloce e per nulla invidiabile capacità umana di giudicare sulla base di preconcetti. A farne le spese può essere di tutto: dal modo in cui ci si veste alla scelta del latte al supermercato. E ovviamente anche il femminismo.

Costruire i luoghi comuni per decostruire il femminismo

Non si tratta di non capire o di aver paura, quanto di basarsi su assunti da cui discendono non comprensione e paura. Un esempio che più calzante non si può: il binomio donna intraprendente-strega, che nei secoli addietro ha infestato l’Europa per molto più tempo di quanto piaccia ammettere. Il femminismo stesso si è poi servito della retorica delle streghe (si vedano alcuni popolari slogan), basandosi però proprio su una forma di oscurantismo che di rado ammetteva eccezioni. Parli troppo? Non ti adatti al ruolo di madre e moglie? Sei una strega. Ecco come e perché questa figura ha fatto tanta paura. Perché i giudizi arrivavano prima del coraggio, se così vogliamo chiamarlo, di provare a capire chi si avesse davvero davanti.

Per l’attuale femminismo vale la stessa dinamica: ogni luogo comune che lo definisce chiude le porte alla possibilità di ascoltare, per capire e leggerlo con nuovi occhi, ciò di cui il femminismo stesso si fa portavoce. Ogni luogo comune costruito decostruisce sempre un po’, alimentando ritrosia, incomprensione e, in un certo qual senso, paura del femminismo. Invertire l’ordine degli addendi, allora, diventa necessario perché il risultato possa cambiare. Per costruire un femminismo che parli a chiunque e quindi che sia davvero tale, occorre decostruire, smontando pezzo per pezzo come si fa con un vecchio e inservibile carillon, i luoghi comuni.

“Le femministe hanno i peli”

Tra i luoghi comuni sulle femministe questo è il più soft, probabilmente perché deriva in parte dalla storia del movimento femminista stesso. Negli anni ’60 e ’70, infatti, non depilarsi era una forma di ribellione rispetto ai canoni femminili dell’epoca: ancora legata a doppio filo ai concetti di purezza e bellezza, la donna poteva concedersi un numero di certo basso di libertà decisionali sul proprio corpo. E la scelta di non depilarsi ne entra a far parte. Per affermare la propria indipendenza rispetto al giudizio maschile, per ricordare con un gesto all’apparenza piccolo a confronto delle grandi battaglie che le donne ancora dovevano compiere la propria capacità di scegliere per sé. Per dare scacco alla “mistica della femminilità.

Ma oggi questo assunto è ancora valido? Beh, no. Nell’era della body positivity, della democratizzazione della bellezza, della (eh sì) quarta ondata femminista, non ha più senso. Come non ne ha più il contrario. In quanto femminista, possono scegliere se depilarmi o meno e continuare a lottare per i diritti delle donne. E soprattutto, questo non vuol dire che io abbia meno cura del mio corpo: una cosa non esclude l’altra.

“Il femminismo odia gli uomini”

Da un estremo all’altro: questa frase è forse la più pericolosa, perché veicola e giustifica l’odio reciproco. Oltre a escludere gli uomini dal femminismo, come si trattasse di mondi opposti che non possono entrare in contatto.

Prima di prendere per buona questa affermazione e trattare il femminismo con una repulsione di risposta, è bene ci si chieda di quali uomini si sta parlando. Perché forse sì, il femminismo odia certi uomini. Quelli che fanno apprezzamenti molesti, che violentano, che urlano contro la loro compagna perché hanno avuto l’ardire di compiere una deviazione prima di andare al lavoro senza dir loro nulla. Ma con certezza questi stessi uomini sono odiati anche da altri uomini ancora. Quelli che rispettano chi hanno davanti, quelli sanno che l’amore non è possesso, quelli che il femminismo non odia, perché anche loro (deo gratia!) sono femministi.

Uno dei luoghi comuni più pericolosi: “Il femminismo odia le donne”

Che odino gli uomini o le donne, le femministe devono avercela con qualcuno. Altrimenti come possono spaventare, e allontanare, chi tiene tanto a quell’ordine patriarcale da non volersi avvicinare a chiunque lo veda per quel che è? E allora ecco che diventano le peggiori nemiche del loro stesso sesso, amazzoni arrabbiate nei confronti di tutte coloro che non la pensano allo stesso modo.

L’assunto di base del femminismo è che ogni donna dev’essere supportata. Questo non vuol dire difenderla aprioristicamente di fronte a qualsiasi suo gesto (e qui si apre il capitolo di un altro luogo comune, il deresponsabilizzante: “tu le dai ragione solo perché donna”), ma neanche odiarla se la pensa in maniera diversa: vuol dire valutarla per la persona che é. Ciò che importa è che sia libera di scegliere e decidere per sé, consapevolmente.

Quando i luoghi comuni sono uno scontro: “Il femminismo è la prevaricazione delle donne sugli uomini”

Un grande classico, che accompagna il movimento sin dai suoi inizi. Partendo dal significato dato al “maschilismo” si da per scontato per l’altro “-ismo” implichi la stessa cosa: sostenere la superiorità di un sesso rispetto all’altro. C’è solo un problema: l’unica circostanza che potrebbe rendere vero questo pensiero è sistematicamente disattesa.

Una convinzione del genere potrebbe essere giusta se i due sessi fossero esattamente sullo stesso piano. Si consideri una bilancia con due piatti esattamente paralleli: è ovvio che qualsiasi movimento del braccio che li regge innalzi uno dei due e di conseguenza abbassi l’altro. Ma maschile e femminile non sono sullo stesso piano. Lo dimostrano i numerosi gap che compongono il quotidiano: dal gender pay gap all’education gender gap, lo svantaggio delle donne è evidente in più campi. E no, non perché si penalizzino da sole, quanto per un problema culturale che nel nostro Paese (ma non solo) ha assunto tratti sistemici. Allora lottare per i diritti delle donne, portare uno dei piatti più vicino all’altro, diventa semplicemente giusto: è una questione di rispetto, non di predominio.

Solo comprendendolo si potrà guardare il femminismo per quello che è. Senza gli: “anche io sostengo i diritti delle donne ma non sono femminista”, come “femminista” fosse una infamante lettera scarlatta. Senza gli: “eh, ma le femministe…”, come si stesse parlando di qualche specie protetta da guardare a distanza. Un impegno morale perché si possa davvero essere sullo stesso piano, una giustizia che dia voce a chi a lungo non ha potuto usare la propria. Un dovere nei confronti della giustizia, per cui “dovremmo tutti essere femministi”.

Sara Rossi