Rules of Laika’s game, quando l’arte arriva nel cinema

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Di Redazione Metropolitan

Laika 1954 alla diciassettesima Festa del Cinema di Roma presenta il film “Life is (not) a Game” di Antonio Valerio Spera

Caschetto rosso fuoco ed occhi profondi come buchi neri: si presenta così Laika 1954. Street Artist romana, o come ama definirsi lei stessa “attacchina”, che fa dell’anonimato il suo baluardo nascondendo la sua identità dietro una parrucca rossa ed una maschera bianca.

Escamotage che più che nascondere un’identità ce ne regalano un’altra: potente, libera, ironica e provocatoria.

Prende ispirazione per il suo nome dalla cagnolina Laika, nata nel 1954, primo essere vivente ad andare nello spazio. Ed ecco che, già dal suo nome, l’artista si presenta con obbiettivi chiarissimi: puntare allo spazio.

Chiaro riferimento, anche graficamente riportato nel logo dell’artista, alla famosa macchina fotografica Leica; e così come un obbiettivo, l’opera dell’artista immortala in maniera irriverente il presente di questo nostro strano mondo.

Il lavoro di Laika è fatto per lo più da poster che la stessa artista affigge sui muri della città, attività iniziata dal 2019 ed evolutasi nel tempo fino a raggiungere i muri di Roma, sua città natale, Bologna, Lipa, Przemysl e Francoforte.

Ed è proprio la ricerca metaforica del muro giusto che spinge Laika ad affrontare il gelido inverno balcanico in compagnia dei migranti nei rifugi temporanei in Bosnia. Il muro giusto come simbolo del palcoscenico più adatto a mettere in scena la più bella delle tragedie: la verità.

Ce lo racconta la stessa artista durante la conferenza stampa, o meglio ce lo racconta il regista Antonio Valerio Spera, che – non solo ha prestato i suoi occhi per raccontare l’opera di un’artista tanto misteriosa quando potente – ma che in questo caso, per garantire l’anonimato dell’attacchina, le presta anche la voce. Ed ecco che insieme raccontano come il “puntare allo spazio” a volte coincide esattamente con il trovare il muro giusto. E da questa ricerca, dal voler raccontare e dare voce a chi questa voce non la ha che nasce Life is (not) a Game. Il documentario diretto da Antonio Valerio Spera, scritto dallo stesso regista con Daniela Caselli con una produzione italo-spagnola, è presentato alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma.

Il film si presenta come una narrazione degli ultimi due anni di lavoro di Laika dal punto di vista dell’artista stessa. Musiche e suoni pop, martellanti, ritmici accompagnano immagini che enfatizzano l’anima ludica di Laika con i suoi self-tapes in studio, i raid di notte per strada per attaccare i suoi poster, passando per le immagini bianche di neve gelida della Bosnia, finendo con la sua opera “Future” (Francoforte, 2021) accompagnata dalle delicate note de “Il Mondo” di Jimmy Fontana.

Un brillante ed irriverente esordio alla regia per Antonio Valerio Spera, che si racconta in questo percorso durante la conferenza stampa insieme a Laika ed ai produttori Alessandro Greco e Pablo De La Chica e la sceneggiatrice Daniela Caselli.

Inizialmente il documentario voleva indagare il ruolo dei social network nella diffusione delle opere d’arte, riflettendo sulla claustrofobia vissuta dalla street artist durante il lockdown, periodo in cui nessun muro le era più accessibile. Ecco che quindi la strada, protagonista indiscussa della performance di Laika, viene meno ed entrano in gioco i social network. Attraverso questo necessario processo, le opere si diffondo in maniera capillare divenendo accessibili a quante più persone possibili, ma si perde la reale essenza della street art.

“Un muro non si può sostituire con un hashtag”, ci riassume Spera.

Lo spettatore vedendo Life is (not) a Game si trova ad osservare un documentario dal ritmo coinvolgente caratterizzato da una scrittura piena di forza, passione ed energia, a servizio (a tratti inseguimento) della performer, che continua a creare arte nonostante le situazioni avverse e contingenti.

Si racconta con la voce del regista, ma si lascia conoscere molto Laika. Ci parla della sua arte, di come sia naturale per uno street artist avere molti punti di riferimento a livello artistico. Nel suo caso prima di tutti Bansky, grandissimo maestro contemporaneo nel mondo della street art, che cita con la frase “A wall is a very big weapon”. Non manca il riferimento e l’omaggio all’artista ed architetto messicana Elina Chauvet, lampante nell’opera di Laika “Zappato Rojos – Save Afghan Women” (Roma, 2022). Non mancano nel suo corpus di opere riferimenti ai grandi maestri del passato come Eugène Delacroix, Charles Clyde Ebbets, Marcel Duchamp e Vincent van Gogh. Pilastri solidi e strutturati per un’arte solo apparentemente “improvvisata”, che nell’attuarsi della sua performance accresce il suo valore con l’elemento che più sta a cuore alla sua creatrice: il messaggio, sempre più importante della tecnica. L’obbiettivo dietro la creazione delle opere è quello di mettere in luce temi che non vengono trattati a livello mediatico con la giusta importanza. Un atto di attivismo artistico.

Non è di certo il primo caso di street art che narra ed ironizza su temi sociali, ma l’arguzia, l’intelligenza di questo personaggio misterioso che si cela dietro una maschera squarciano il velo di Maya e risuonano nella nostra quotidianità. Spesso risuonano così forte da essere sottoposti a censura.

Ed ecco che l’anonimato, dapprima nato come strumento per proteggere la vita privata dell’artista e strumento per garantirle più libertà d’azione, diventa ora un megafono per amplificare una voce fortissima. Così come la censura, anche l’anonimato diventa elemento fondamentale della performance dell’artista.

Laika quindi non solo è un’attacchina, una poster artist ma con una performer a tutto tondo che trasforma in arte l’attivismo.

D’altronde arte ed attivismo da sempre sono due mondi che si fondono, l’espressione artistica è sempre stata riflesso incondizionato delle reazioni dell’artista come individuo agli accadimenti del suo tempo. Ci basti pensare al Cubismo o alla recentissima protesta delle due attiviste ambientaliste per la campagna “Just Stop Oil” alla National Gallery di Londra che ha visto danneggiata l’opera “I Girasoli” di Vincent van Gogh.

Due universi, due mondi, due linguaggi che si fondono dall’alba dei tempi, uno genesi dell’altro e viceversa che ci portano inevitabilmente ad una fondamentale riflessione, che Laika nella conclusione del documentario, riassume con una frase:

“Futuro: e voi, riuscite a vederlo?”

Cogliendo questo profondo spunto di riflessione, a noi non resta che osservare curiosi Laika, che ci preannuncia una prossima opera per l’attuale situazione che sta vivendo l’Iran, puntare allo spazio perché, come dice Italo Calvino ne “Le città Invisibili”: “La forma delle cose si distingue meglio in lontananza”.

Di Elisabetta Paganelli