Stereotipi di genere e abbigliamento per l’infanzia

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Di Sara Rossi

“Se si indossava la gonna, stare sedute a gambe aperte era considerato decisamente indecente per una bambina non piccolissima, mentre la stessa posizione con i pantaloni è ritenuta del tutto accettabile“. Così scriveva Elena Giannini Belotti in uno dei testi di pedagogia più importanti degli ultimi cinquant’anni: “Dalla parte delle bambine”. Scritta nel 1973, questa denuncia suona attuale ancora oggi. Perché la reazione di fronte a un bambino o a una bambina in quella posizione è differente. E l’abbigliamento veicola e premette questo diverso modo di rapportarsi ai sessi. Secondo una logica scadente e scaduta. che norma in nome del binomio tra stereotipi di genere e abbigliamento.

Il rapporto tra stereotipi di genere e abbigliamento non è sempre stato uguale

Sulle parole crociate, questo sarebbe una di quelle curiosità da inserire sotto la voce “Forse non tutti sanno che…”. Con tanto di esempi illustri di nomi e situazioni. L’abbigliamento per bambini e bambine ha compiuto un lungo percorso per arrivare fin dov’è oggi. A partire dal colore femminile per eccellenza: il rosa, che fino alla prima metà del 1900 era un colore per bambini. Non solo: fino a fine 1800 i bambini indossavano vestiti che oggi sarebbero considerati “da bambina”. Innanzitutto per la comodità, sia da infilare che da sfilare in caso di urgenze fisiologiche. Poi perché, prima ancora della Rivoluzione Industriale, i vestiti avevano costi alti ed era necessario averne uno che potesse essere sfruttato in più occasioni.

Indossare i pantaloni era, per un bambino, un importante momento di passaggio nella vita adulta. E a una fatta di possibilità: “I pantaloni consentivano a un ragazzo di muoversi: correre, salire sui carri e superare i recinti, e andare a cavallo. Le sue sorelle rimanevano chiuse in abiti che inibivano i loro movimenti e le tenevano più vicine a casa” scrive la storica statunitense Anne S. Lombard.

Solo con la prima Guerra Mondiale e l’avviarsi del percorso verso un definito e netto binarismo di genere si comincia a differenziare, individuando un rapporto tra sesso, genere e abbigliamento.

Verso una moda senza stereotipi

Negli anni Trenta iniziano a comparire bambine vestite come piccole adulte e prende piede il modello della piccola attrice Shirley Temple. I riccioli d’oro e il vestito a pois diventano un’icona, segnando un vero e proprio avvento del vestire “da bambina”. Una tendenza viziata, per ambo i sessi, dall’abitudine di certi genitori nel vedere i propri bambini come proiezioni in miniatura di sé. Fino a dare vita a un curioso quanto confuso sincretismo tra un’età definita, con tutto un universo dedicato, e l’immagine di piccoli adulti.

Solo di recente, con la messa in discussione del marcato confine tra i sessi e tra questi e i generi, sta prendendo piede una moda lontana dagli stereotipi. Da Elle Degeneres e alla sua linea “GIRL”, fino alla decisione di singoli genitori, il cammino è in corso. La famosissima conduttrice, ad esempio, ha dichiarato rispetto al proprio lavoro: “I capi sono stati pensati per le ragazze che vanno in sakteboard o fanno danza, indossano vestiti oppure jeans, costruiscono castelli o dipingono arcobaleni, o qualsiasi cosa vi sia nel mezzo”.

E in Italia?

Trovare abiti genderless in Italia è, purtroppo per il nostro Paese, complesso. Basta entrare in un qualsiasi negozio di abbigliamento per l’infanzia per rendersene conto: a colori tenui e pastello corrispondono altri scuri e spigolosi. Un riflesso esatto di ciò che si vuole comunicare: delicatezza e forza. In teoria sorpassate, queste associazioni tra stereotipi di genere e abbigliamento sono nella pratica confermate. E allora forse è vero quello che diceva Elena Giannini Belotti, è ancora attuale questo 1973. La gonna costringe a stare sedute, i pantaloni permettono libertà ma non sempre facciamo qualcosa per evitarlo.

Sara Rossi