The Crown 5, recensione di una stagione di transizione

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Di Carola Crippa

La quinta stagione di The Crown non incanta come le precedenti. L’ultimissima stagione, uscita il 9 novembre su Netflix, ha lasciato tiepidi stampa e pubblico. 

Si parla comunque di altissima qualità nella scrittura e nella regia, ma alcuni elementi la caratterizzano come più debole rispetto alle altre quattro (eccellenti) uscite. 

Una stagione sulla crisi

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La quinta stagione è ambientata negli anni ’90, in quello che, con tutta probabilità, è stato il decennio peggiore per la corona britannica. Tra le crisi familiari e l’incendio di Windsor c’è una forte percezione che, insieme alla fine del millennio, si stava spegnendo anche un tipo di mentalità arcaica ed ancorata al passato.

E forse è proprio crisi il termine che caratterizza al meglio il corso della stagione. I matrimoni della famiglia reale sono tutti sull’orlo del fallimento e le differenze tra Elisabetta e i suoi figli si fanno sentire. La regina, sia come capo della Chiesa anglicana, sia come donna legata ad una mentalità conservatrice, è contraria al divorzio. La donna, infatti, vorrebbe che i figli risanassero le ferite tramite la diplomazia e la maturità. I figli, invece, hanno una considerazione diversa del divorzio e delle relazioni: non eterne, mutevoli e legate alla sfera privata più che a quella dell’apparenza pubblica. 

Crisi matrimoniali

Un esempio su tutti è il matrimonio tra Carlo e Diana: perfetto sulla carta, ma un fallimento nella realtà. Diana, apparentemente, è la donna e moglie ideale per il principe, che però, da sempre è innamorato di Camilla Parker-Bowles. Il confronto tra le due donne segue tutto il corso della stagione, ma nessuna delle due è vincente. A Diana, nonostante l’amore del popolo, manca l’affetto coniugale e familiare. Camilla, invece, nonostante la lunga relazione con Carlo, viene relegata dalla stampa e dal pubblico al ruolo di amante, perdendo qualsiasi tipo di confronto con Diana.

La storyline, centrale nella narrazione, tuttavia, risulta un po’ ridondante. La bellezza di The Crown sta, soprattutto, nella ricostruzione storica di eventi “a porte chiuse” e, come spesso messo in luce dalla serie, il matrimonio tra Carlo e Diana era un affare pubblico e ben noto. Non c’è nulla che non sia già stato detto, raccontato o anticipato dalla precedente stagione e c’è il rischio di essere eccessivamente ripetitivi.

Crisi valoriali

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Ma, soprattutto, la vera e propria crisi viene subita da Elisabetta. Sarà, in primo luogo, una crisi valoriale. Elisabetta non riesce più a rispecchiarsi in una società che sta cambiando. Allegoria è il suo yacht personale, il Britannia, troppo vecchio per poter continuare la navigazione. Per la restaurazione dello yacht servirebbero 15 milioni di sterline che la Regina chiede di prelevare dai soldi pubblici. La richiesta è difficilmente digeribile per il Primo Ministro John Major che, nel frattempo, sta affrontando un’importante recessione economica. Major è anche colui che farà da mediatore nel divorzio tra Carlo e Diana. L’uomo è il simbolo dell’incapacità della corona di giungere ad accordi interno e di autoregolare le proprie relazioni familiari. La regina e la monarchia sono costantemente mostrati nella loro dimensione stantia e stagnante, che fatica a trovare legittimità in un mondo sempre più diverso. 

Il ruolo della religione: tradizione e modernità si scontrano

Un esempio di diversità su tutti è quello dalla religione. La regina esercita costantemente il suo ruolo di capo della Chiesa anglicana, ma la società attorno a lei è sempre più varia e diversa. Carlo, invece, si pone come difensore e futuro capo di tutte le Chiese (o meglio, di tutte le religioni), ricordando la presenza nel Paese di Cattolici, Mussulmani, Sikh e Buddisti. Anche Filippo rinfaccerà ad Elisabetta il sacrificio nell’abbandono della propria professione: nato ortodosso, per poter sposare Elisabetta si era convertito alla Chiesa Anglicana.

Il contrasto tra la Regina e Carlo, quindi, è impietoso. La donna non riesce ad interrogarsi sulle cause della crisi del sistema, mentre Carlo appare moderno, aperto, quasi illuminato. Alla Regina sembra impossibile che ci siano fasce della popolazione che non si sentano rappresentate dalla monarchia, perché il suo stesso scopo è quello di unificare tutto il regno. Carlo, invece, capisce ed intercetta coloro che sono stati dimenticati: tenta di far sentire la sua voce in un ruolo, quello del Principe del Galles, che gli è sempre stato stretto e scomodo. 

Il sistema che soffoca e reprime

Se la prima metà della stagione è ben bilanciata tra le vicende interne alla famiglia reale e ciò che succede all’esterno, la seconda metà procede più a rilento, concentrandosi eccessivamente sul divorzio tra i due Principi del Galles. Particolarmente interessanti le puntate 3 e 4, dedicate rispettivamente alla storia di Mohamed Al-Fayed e al rimpianto dell’amore giovanile di Margaret, Peter Townsend. Nella prima si assiste plasticamente agli effetti del colonialismo britannico: il razzismo causato dalle pratiche dell’imperialismo permea tutti gli strati della società e, soprattutto, della famiglia reale. Nella seconda, invece, il personaggio di Margaret, ancora una volta, ribadisce il modo in cui il “sistema” soffochi ed opprima coloro che non ne sono al centro e che esprimono creatività e modernità in contrasto con il grigiore stantio della corona. 

Un cambio di cast riuscito

Il cambio di cast, nella maggior parte dei casi, non compromette la qualità della serie. Ottima Imelda Staunton nei panni di Elisabetta, così come Jonathan Pryce in quelli di Filippo.  La Diana di Elizabeth Debicki è una Diana cresciuta, non più ingenua, ma spezzata, fragile, paranoica. Il Carlo di Dominic West, invece, sembra virare a 180 gradi dal Carlo di Josh O’Connor: da impacciato e pedante diventa tronfio e sicuro di sé. In linea generale, l’impressione è quella di una stagione di transizione, meno carica rispetto alle precedenti, che servirà come preparazione alla sesta e ultima.

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Carola Crippa