“Vorrei sapere cosa pensi: secondo te i fantasmi esistono davvero, oppure sono solo ombre senza consistenza create dalla nostra paura? Io da parte mia sarei incline a credere che esistano.” Quando si parla di fantasmi, lo sfondo che subito si palesa all’immaginazione è quello di un castello gotico, una brughiera nebbiosa e damigelle pallide della società vittoriana. Più difficile che saltino alla mente le metropoli del mondo antico, come Atene o Roma, affollate e luminose: eppure il frammento citato appartiene a Plinio il giovane, un nobile cittadino romano. Ecco le credenze più radicate sui fantasmi nell’antichità, e la storia di una casa infestata nell’impero romano.

Fantasmi nell’antichità: la superstizione greca

L’ombra di Tiresia appare a Ulisse. Ph: abc.es

La superstizione dei greci, che perdura fino a noi, escludeva dagli inferi diverse categorie di anime che non avevano concluso serenamente la loro permanenza terrena. Le anime irrequiete erano quelle dei morti prematuri, delle vittime di morte violenta e di coloro che erano rimasti insepolti. Per questi ultimi, in particolare, i greci avevano una speciale pietà. Nel ventitreesimo libro dell’Iliade c’è una scena molto commovente in cui lo spettro di Patroclo appare all’eroe Achille, e gli domanda di seppellirlo. Solo con una degna sepoltura la sua anima avrebbe potuto placarsi, e non tornare più a tormentare i vivi.

L’usanza più celebre per tenere lontani i fantasmi nell’antichità era quella di mettere una moneta in bocca al morto, come offerta di un obolo al traghettatore delle anime Caronte. Con quel denaro, il morto avrebbe potuto assicurarsi un sereno passaggio per l’Ade. La scelta di posizionare la moneta proprio sulla bocca è significativa: già secondo Omero l’anima umana era respiro (psyche), un soffio che usciva dalle labbra per andare ad abitare come ombra inconsistente nelle regioni infere.

I morti, tuttavia, potevano essere anche evocati, soprattutto per conoscere il futuro. I negromanti erano letteralmente coloro che traevano profezie (manteiai) dai morti (nekroi). L’undicesimo libro dell’Odissea descrive un vero e proprio rito negromantico. Odisseo è approdato nel nebbioso paese dei Cimmeri. Scava una fossa con la spada e immola poi un agnello e una pecora nera, il cui sangue scorre dentro la fossa. Ecco che dalle profondità oscure del loro regno emergono le anime dei morti; si raccolgono intorno al sangue versato per riprendere un po’ di vigore. Odisseo le allontana finché non si avvicina l’ombra dell’indovino Tiresia, che beve il sangue e predice all’eroe il ritorno ad Itaca e la morte dei compagni.

Una casa infestata nell’impero romano

Plinio il giovane era un uomo smaliziato, colto, un legalista raffinato e amico dei potenti che amava la vita agiata. Non era di certo uno scrittore tormentato. Eppure, nel settimo libro del suo immenso corpus epistolare, è contenuta una storia dell’orrore degna del miglior Edgar Allan Poe. E il destinatario è autorevole quanto l’autore. Plinio scrive al console Licinio Sura:

“C’era ad Atene una casa spaziosa e capace, ma malfamata e funesta. Nel silenzio della notte si levavano un rumore di ferraglia e uno stridore di catene. Ecco apparire allora uno spettro, un vecchio tutto macilento e trasandato; ai piedi portava ceppi, alle mani catene, e li scuoteva. Per questo motivo gli inquilini passavano notti tetre e spaventose, senza chiudere occhio. Così la casa restò deserta e condannata a rimanere vuota; tuttavia si lasciava esposto il cartello, nell’eventualità che qualcuno volesse comprarla o affittarla.

Il filosofo Antenodoro legge il cartello e si fa dire il prezzo. Prende la casa in affitto. Sul far della sera, dà ordine che gli si prepari un letto vicino all’ingresso e si fa portare tavolette, stilo e lampada. All’inizio, come dappertutto, c’è il silenzio della notte: poi ferri squassati, catene agitate; egli si volta e riconosce la figura che gli avevano descritto. Stava in piedi e faceva cenno con un dito, come a chiamarlo; Antenodoro, di rimando, gli fa segno con la mano di aspettare un po’ e si immerge in stilo e tavolette. Mentre scriveva, il fantasma gli faceva stridere le catene sul capo; egli si volta di nuovo, lo vede far cenno allo stesso modo di prima, e senza indugiare, prende la lampada e lo segue.

Lo spettro camminava a passo lento, come oppresso dal peso delle catene, dopo aver piegato verso il cortile della casa, scompare di colpo. Antenodoro raccoglie delle foglie e le ammonticchia sul posto, per contrassegnarlo. L’indomani si reca dalle autorità e le invita a scavare in quel punto. Si rinvengono delle ossa confuse, frammiste a catene. I resti vengono raccolti e seppelliti per cura dell’amministrazione, e da quel momento la casa restò libera dai fantasmi.”

Catene, case maledette, spettri che guidano gli uomini verso i loro stessi resti: ci sono tutti gli ingredienti delle moderne storie horror, in una lettera di duemila anni fa.

Lorenzo La Rovere

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