Disponibile da oggi primo aprile, The Game, thriller di David Fincher, del 1997. Nicholas Van Orton (Michael Douglas) è un ricco e solitario businessman. In occasione del suo compleanno, suo fratello Conrad (Sean Penn) gli fa un regalo particolare; si tratta di una tessera di iscrizione ad un club di giochi di ruolo, per ricchi annoiati. Per farne parte, Nicholas deve affrontare una serie di esami fisici e psicologici, che, lo irritano fortemente e che, alla fine, non riesce nemmeno a superare. L’uomo non digerisce l’esperienza;egli è convinto che la società organizzatrice del gioco costituisca una minaccia ai suoi affari, alla sua incolumità, nonché la sua reputazione. L’incontro con una cameriera danneggiata dalla stessa azienda sembra confermare le sue peggior paure; ma quando la polizia va ad indagare, la sede della compagnia è abbandonata…
Il film ha incassato quasi 110 milioni di dollari, per un budget di 70; rappresenta dunque un successo relativo, non comparabile al precedente exploit del celeberrimo Seven. Nonostante autorevoli critici abbiano ben accolto la pellicola, tra i suoi detrattori si trova proprio lo stesso autore, David Fincher; apparentemente, egli avrebbe passato il tempo delle riprese a litigare con la moglie, la produttrice Ceán Chaffin, che non era mai stata convinta dal progetto, e alla quale, col senno di poi, ha dato ragione. Nello stesso periodo, tra l’altro, posticipa la realizzazione dell’acclamatissimo Mank, la cui sceneggiatura è firmata dal padre Jack, che purtroppo morirà, prima che la pellicola venga alla luce. A posteriori, il regista, famoso per il proprio perfezionismo, ha un rapporto conflittuale con The Game, soprattutto per quanto riguarda la risoluzione finale. Michael Douglas, al contrario, sostiene che il fascino del film risiede giustamente nell’imprevedibilità del suo epilogo.
Cinema e simulacro
A partire dalla digitalizzazione e la moltiplicazione di realtà virtuali, il cinema comincia ad interessarsi sempre di più alla “teoria del simulacro”, del filosofo Jacques Baudrillard (1929-2007). Egli sostiene che la società moderna tende a rimpiazzare l’esperienza reale con la sua simulazione, o simulacro. Quest’ultimo, fatto di segni e simboli, è un insieme costruzioni mediatiche e culturali che filtrano la realtà al punto da farci perdere ogni abilità di riconnetterci ad essa; o di distinguerla, per l’appunto, da ogni sua forma di riproduzione. Fenomeni quali lo sviluppo di internet, la realizzazione di tecniche di rappresentazione digitale al cinema, nonché la moda dei reality show, in cui si vive in una realtà alternativa, ispirano dunque la cinematografia odierna, soprattutto verso la fine degli anni Novanta.
L’esempio più famoso è costituito da Matrix (1999), dei fratelli (ora sorelle) Wachowski, il quale dipinge una società che è in realtà una simulazione realizzata da computer;la pellicola si rifà apertamente alle teorie del filosofo francese, la cui opera è visualmente citata in una scena. Sempre di quegli anni è The Truman Show, il cui protagonista vive in una realtà fittizia, creata solo per intrattenere gli spettatori di uno show televisivo. Il filone continuerà; tra gli esempi più noti ed iconici, Inception di Christopher Nolan (2009) e Lei (2013), girato e scritto dal grande Spike Jonze, che tra l’altro appare in un cameo, proprio nel film The Game! Da oggi su Netflix, The Game di David Fincher.
Sara Livrieri
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