Black Mirror 6, la serie di Charlie Brooker, continua con la sua ultima stagione, che vira rispetto al tema centrale. Le stagioni precedenti, infatti, riguardavano le derive della tecnologia nei suoi usi più smodati e nelle conseguenze estreme che ne scaturiscono. Questa volta, Brooker si concentra sull’essere umano e le sue nefandezze, e la tecnologia 2.0 è solo un sottofondo o, persino, un accessorio, mero mezzo di narrazione. Tra gli episodi più moralisti c’è senz’altro il secondo: “Loch Henry”, di cui parleremo con qualche spoiler.

Black Mirror 6: true crime sotto accusa

Frame della seconda puntata di Black Mirror, "Loch Henry" - Photo Credits radiotimes.com

Molti dei fan della serie hanno lamentato la mancanza delle solite atmosfere in Black Mirror 6, ad eccezione, forse, del terzo episodio “Beyond the sea”, che ci riporta in una certa misura agli albori del prodotto mediatico tra i più in voga degli ultimi anni.

In effetti, che la serie abbia subito uno scossone rispetto alle stagioni passate è indubbio. Questo si delinea ancora di più a partire dal secondo episodio, “Loch Henry”. La puntata riguarda una coppia, Davis e Pia, che torna nella città natale di lui, nella quale si è consumato un orrendo crimine. I due, spinti soprattutto da lei, decidono quindi di cambiare l’argomento del documentario che volevano girare – inizialmente il tema era un collezionista di uova rare che avrebbe avuto come fulcro l’importanza della biodiversità – e di raccontare il macabro episodio che coinvolge la cittadina, che sarebbe deserta proprio per colpa di questo evento, in cui si trovano.

Brooker bacchetta tutti e tutte

Da quando la giovane coppia prende la decisione di realizzare un documentario true crime, l’atmosfera diventa sempre più pesante. Entrambi, accompagnati dall’amichevole barista interpretato da Daniel Portman, si addentrano nella parte più profonda degli avvenimenti tragici e oscuri di anni prima, entusiasti di ciò che potrebbero trovare.

Un po’ come quando un gruppo di adolescenti si trova in una casa nel bosco in un film horror, la sensazione è che nulla sia destinato a finire bene. Questa profezia, è inutile dirlo, si avvera in pieno stile Black Mirror: man mano che i tre scendono negli abissi di quanto più orribile le persone possano fare, è come se questo abisso guardasse a sua volta dentro di loro (citando Nietzsche) e li sporcasse per sempre. L’episodio si dipana sempre più osservando una sorta di legge tra quella del contrappasso e quella del taglione, che inevitabilmente si abbatterà sui nostri protagonisti, all’inizio innocenti e poi corrotti.

L’eredità di “Dahmer” su Netflix

Bisogna ricordare che, sì, la tecnologia in Black Mirror non svolge in questa stagione il medesimo ruolo che ha ricoperto nelle altre, ma è presente in un modo più sottile. I protagonisti di “Loch Henry” stanno girando un documentario, utilizzano dunque la tecnologia delle telecamere, e non è un caso che il plot twist dell’episodio avvenga a causa di alcune videocassette.

L’accanimento di Brooker contro il genere true crime arriva a troppa poca distanza dall’esordio della serie Dahmer, presente su Netflix, per non farvi riferimento. Il successo della serie riguardante il noto serial killer, accompagnata dalla notorietà di podcast true crime e altri prodotti mediatici affini, innesca la riflessione di Brooker che condanna indubitabilmente chi sceglie di ricavare profitto dalla sofferenza di molte persone. La coppia di giovani riceve una esemplare punizione quando la ragazza, Pia (un nome che riporta all’idea di purezza), scopre per caso che sono gli stessi genitori di Davis, oltre all’assassino già identificato, a perpetrare torture, abusi e omicidi.

L’amarezza del successo ottenuto col sangue

Una volta compreso che la “suocera” era in realtà un mostro, Pia tenta la fuga con la scarsa lucidità di una persona sconvolta. Questo tentativo le sarà fatale, così come costerà la vita alla stessa Janet, la mamma di Davis, che, afferrata la situazione, decide di impiccarsi, ma di lasciare tutto il materiale video, anche quello più scabroso, al figlio. Davis sceglie di proseguire nella realizzazione del documentario, di facile riuscita visto quanto ottenuto dalla madre.

Davis ci era stato presentato come un “bravo ragazzo”, e nel finale non si smentisce: non riesce a godere del successo ottenuto grazie al documentario, visto che è frutto di altre due morti di persone a lui care. Resta il fatto che abbia deciso di pubblicare quei materiali, e la risposta alla domanda “perché” può risiedere solamente in un elemento: il puro profitto. Brooker bastona ancora una volta le logiche spietate del consumo e la morbosità con cui i fruitori di contenuti si attaccano a elementi disturbanti dei true crime per sfuggire alla propria piatta esistenza.

Beatrice Martini

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