Era il 7 febbraio del 1964 quando i Beatles s’imbarcarono sul volo Pan Am 101, direzione USA. A salutarli, un’orda di fans scatenati, accorsi a Heathrow per augurare buon viaggio ai propri beniamini. Se Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr temevano di non ritrovare lo stesso calore sul suolo americano, dovettero ben presto ricredersi: ad accoglierli, al JFK di New York, si erano radunate oltre diecimila persone, impazienti di vedere e ascoltare i quattro ragazzi inglesi, finalmente nella loro patria.
La rotta verso il Nuovo Continente, in verità, non era stata semplice. Altri artisti britannici, in precedenza, avevano tentato la conquista dell’America, ricevendo cocenti delusioni, e il manager della band, Brian Epstein, aveva lottato per portare il gruppo oltreoceano. Tra i suoi obiettivi c’era Ed Sullivan, conduttore dell’omonimo show sulla CBS. Inizialmente titubante all’idea di ospitare dei semisconosciuti, il presentatore si era ricreduto quando il suo aereo, nell’ottobre del 1963, era rimasto bloccato a Londra a causa della ressa in attesa del complesso, di ritorno dalla Svezia. Toccato con mano il potenziale di un tour promozionale statunitense, Sullivan aveva accettato di averli nel proprio programma. Contemporaneamente, Epstein si era accordato con il produttore musicale Sid Bernstein per due concerti alla prestigiosa Carnegie Hall. Nel gennaio del 1964, il singolo I want to hold your hand aveva debuttato nelle classifiche, raggiungendo la vetta. Questa era stata la spinta finale: la Beatlemania era pronta ad esplodere anche nel Nuovo Mondo.
I Beatles negli USA: il trionfo dei quattro ragazzi di Liverpool
Il 1963 era stato un anno difficile per gli Stati Uniti: il Paese era ancora sotto shock per l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, e faticava a ritrovare la serenità. L’irruzione dei Fab Four, quindi, fu vista come una ventata d’aria fresca e di leggerezza, gradita e necessaria. I biglietti per le date previste vennero polverizzati in pochissimo tempo, e l’esordio di Lennon & Co. all’Ed Sullivan Show segnò un record di ascolto. Nonostante le critiche mosse dalla stampa locale, che li definì «quattro tizi di Liverpool non molto inquietanti, dei rigolos», i Beatles continuarono a raccogliere consensi, tanto da non poter girare liberamente per strada senza che sostenitori e curiosi li assalissero. Rintanati nelle stanze del Plaza, dovettero allertare le Forze dell’ordine prima di ogni uscita, in modo che fosse loro garantita un’adeguata sicurezza. Riuscirono a realizzare un celebre servizio fotografico a Central Park e, come scrisse il Daily Mail: «La polizia di New York non lavorava così duro dal 1960, dalla visita congiunta di Castro, Chruscev e Tito.»
Dopo la Grande Mela, toccò alla capitale, Washington. La cattiva organizzazione del Coliseum, l’impianto d’amplificazione poco funzionante e l’eccessivo entusiasmo da parte del pubblico, che lanciò sul palco decine di gelatine gommose, di cui Harrison era ghiotto, resero l’esperienza un incubo per la band britannica. L’esibizione, tuttavia, fu un successo: più di ottomila spettatori riempirono la struttura, cantando in coro All my loving e le altre hits. La tappa seguente fu la Florida, dove, tra un’apparizione televisiva e un bagno di folla, i Beatles si concessero dei momenti di relax, in spiaggia e su uno yacht messo a disposizione da un milionario. A Miami, inoltre, conobbero il pugile Cassius Clay (il futuro Muhammad Alì). Un incontro divertente quello con il campione che, a detta di Ringo Starr, «È più grande di tutti noi messi insieme!».
Non è tutto oro quello che luccica: il lato oscuro dell’America
Il viaggio a stelle e strisce fu un innegabile trionfo. I Beatles, però, si ritrovarono a fare i conti con lo scetticismo e l’ironia dei giornali, che continuarono a lungo ad etichettarli come fenomeno passeggero. A stridere con queste opinioni, l’incontenibilità del loro seguito, che, in più di un’occasione, divenne molesta. Ne sa qualcosa Ringo Starr, che si vide tagliare una ciocca di capelli da un ammiratore, fatto che, ovviamente, scatenò una forte reazione da parte del batterista. Ancora più sconcertante, fu l’impatto con la pubblicità americana e con il suo approccio aggressivo. Gli organizzatori delle conferenze stampa, ad esempio, esponevano all’insaputa del gruppo cartelli per delle sponsorizzazioni. Più volte, inoltre, McCartney e soci avevano accettato di citare i nomi di alcuni prodotti, offrendo loro visibilità gratuita.
D’importanza sicuramente maggiore, fu l’episodio di Jacksonville, dove i Beatles avrebbero dovuto suonare. Quando vennero a sapere che bianchi e neri sarebbero stati separati in settori diversi, tuttavia, minacciarono di annullare lo spettacolo. Erano gli anni della segregazione razziale e i quattro, in prima linea contro le discriminazioni, costrinsero le autorità locali a cedere. John Lennon dichiarò: «Non abbiamo intenzione di esibirci davanti a platee divise. Non abbiamo mai voluto e non vogliamo iniziare adesso.». Il concerto, grazie al loro intervento, si tenne davanti a un parterre senza barriere. Da allora, prima di ogni show, i musicisti pretesero di firmare un contratto che assicurasse loro un pubblico integrato. Il tema del razzismo ispirò, anni dopo, la celebre Blackbird, un inno all’uguaglianza e alla libertà. Una bella lezione da parte della band più influente della storia che, a Jacksonville e nel resto del mondo, voleva unire tutti con il potere della musica, senza alcuna divisione.
Federica Checchia
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