Il 5 aprile 1994 il mondo ha perso Kurt Cobain, ma l’ha scoperto solo tre giorni dopo. Trovato esanime da un elettricista nella sua villa sul lago Washington, il cantante si è suicidato con un colpo di fucile alla testa. Nel suo corpo, massicce quantità di eroina; accanto a lui, una lunga lettera d’addio. Un alone di mistero circonda tuttora la sua morte, e in molti sono convinti che Cobain non si sia tolto la vita, ma, al di là delle speculazioni, rimane l’enorme vuoto lasciato da uno dei musicisti cardine della scena grunge.

Nato ad Aberdeen il 20 febbraio 1967, dopo un’infanzia e un’adolescenza segnate dal divorzio dei genitori e mitigate solo dal suo amore per l’arte, Kurt si fa strada nel mondo della musica a piccoli passi, fino ad arrivare, nel 1987, a fondare con il bassista Krist Novoselic e il batterista Aaron Burckhard i The Stiff Woodies, che poi diventeranno i Nirvana. Dopo il primo album, Bleach, e l’ingresso di Dave Grohl alla batteria, la band registra Nevermind. Trascinato dal singolo Smells Like Teens Spirit, il disco scala velocemente le classifiche, raggiungendo la vetta della Billboard 200. I Nivana diventano il primo gruppo grunge ad ottenere un simile successo commerciale. Inizia, così, la parabola dello storico complesso. Parabola che però, per il frontman, si rivelerà discendente.

Kurt Cobain: un tunnel senza uscita e l’ultimo concerto

Kurt Cobain
Kurt Cobain, leader dei Nirvana

La crescente fama coincide con l’aumentare della crisi personale del carismatico cantautore. L’improvvisa celebrità e uno status di rockstar nel quale non si riconosce lo infastidiscono. Il ruolo di portavoce del disagio giovanile, assegnatogli dai media, cozza con la sua natura riservata, e il performer sente su di sé una pressione sempre maggiore. A questo, si aggiunge la dipendenza dalle droghe, che s’intensifica quando inizia a fare uso di eroina come antidolorifico per un’ulcera. Il tumultuoso matrimonio con Courtney Love, frontwoman degli Hole, e la nascita della figlia Francis Bean, della quale la coppia perde, per un periodo, la custodia, non migliorano la situazione. La tossicodipendenza di Cobain, ormai fuori controllo, compromette l’equilibrio interno del trio, oltre che le relazioni esterne.

Con queste drammatiche premesse, all’inizio del 1994 i Nirvana intraprendono quello che finirà per essere il loro tour d’addio. Il 1° marzo salirono per l’ultima volta su un palco al Terminal 1 di Monaco, in Germania. Un’esibizione difficile, costellata di problemi tecnici, con un’acustica sfavorevole e Kurt quasi perso in se stesso. Con difficoltà, suonano la cover di The Man Who Sold the World di David Bowie e quella di My Best Friend’s Girl dei The Cars. A metà del concerto, durante uno dei vari blackout della serata, Novoselic sbotta: «Ce ne andiamo, il nostro prossimo album sarà un disco hip-hop. Il grunge è morto, i Nirvana sono finiti». Una frase dettata dal disappunto del momento, ma che si rivelerà profetica. Chiudono con Heart-Shaped Box, dall’ultimo album In Utero, ma non riescono ad eseguire Smells Like Teen Spirit. Il giorno dopo, Cobain viene visitato da un medico, che gli diagnostica una grave laringite e bronchite. Dopo aver cancellato le restanti date della tournée, vola a Roma da Courtney.

Gli ultimi giorni e l’addio

Il 4 marzo Cobain viene ricoverato per overdose di alcol e farmaci. Torna in America per disintossicarsi al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, ma scappa dopo un giorno, sale su un aereo per Seattle e si rintana nella sua casa su Lake Washington Boulevard, dove viene trovato senza vita la mattina dell’8 aprile. Un finale per alcuni già scritto, ma che ha un fortissimo impatto sull’opinione pubblica. Lo sgomento dei fans e dei colleghi ha una risonanza mediatica incredibile. I Nirvana si sciolgono ufficialmente, mettendo la parola fine a un capitolo fondamentale della storia musica.

Quel ragazzo timido e dai tratti angelici, che sul palcoscenico si trasformava in un’altra persona e cantava la rabbia di una generazione intera ha portato via con sé l’unicità di un decennio irripetibile, gli anni Novanta. Vittima, come tanti altri, di un’industria spietata e fagocitante, che non lascia spazio all’umanità. Come lui stesso ha scritto nel suo ultimo biglietto: «Il fatto è che non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco.». Un sistema meccanico e troppo ostile per essere affrontata da solo, soprattutto da una persona che stava già lottando con i propri demoni; troppo dura per chi, come lui, chiedeva «Pace, amore, empatia.».

Federica Checchia

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