Quarantasei anni fa l’Italia sanguinava: il 9 maggio del 1978 le telecamere puntavano su una Renault 4 rossa in cui giaceva il corpo senza vita del Presidente della Democrazia Cristiana; a Cinisi (Palermo), quello che si diceva fosse un giovane terrorista si legava ai binari di una ferrovia con l’intenzione di farsi saltare in aria. Fu la notte in cui morirono due simboli, due uomini: Peppino Impastato e Aldo Moro.
Peppino Impastato e il caso Aldo Moro: l’incrocio di due destini
Alle 8:45 del 15 marzo 1978 quattro avieri civili spararono sulla scorta di Aldo Moro, uccidendo cinque uomini e lasciando il politico illeso a bordo di una Fiat 130. Si trattava di quattro membri delle Brigate Rosse, che indossavano le vesti del personale di Alitalia: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. Aldo Moro, nell’ottica delle BR, era il responsabile del governo Andreotti IV, a causa del suo voluto avvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano.
Il presidente della DC soffrì cinquantacinque giorni di prigionia prima di venire sparato dodici volte all’alba del 9 maggio. Aldo Moro aveva dichiarato di non voler vedere alcuna faccia della politica per il proprio funerale: e il 13 maggio, giorno della sua commemorazione funebre, si presentarono solo quegli stessi politici che lui non aveva invitato. Ma non la sua famiglia, e nemmeno il suo stesso corpo, che nel frattempo veniva pianto in una funzione privata circondato dai propri affetti.
Nel frattempo, a Cinisi
Nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978, un giovane trentenne palermitano veniva ucciso a colpi di sassi dagli scagnozzi di Gaetano Badalamenti. E, come se il destino avesse voluto ancora una volta mettere a tacere il coraggioso Peppino Impastato, esso fece in modo che quel tragico giorno coincidesse con l’assassinio di Aldo Moro. Si parlava di suicidio, di terrorismo: ciò che il pubblico vedeva era un ragazzo legato ai binari di una ferrovia, vestito di tritolo.
Ma Peppino non si era suicidato. Lui, che per la sua breve esistenza aveva lottato per l’entusiasta celebrazione alla vita che colorava il suo cognome sporcato dalla mafia, non poteva essersi suicidato. La vita che tanto amava gli venne strappata via da “Tano Seduto“, il soprannome che il ragazzo aveva affibbiato a Badalamenti, un piccolo boss locale: lo stesso Tano che veniva accolto in casa Impastato, poiché amico del padre di Peppino. La notte del 9 maggio fu figlia di tutti gli scherni nei confronti del boss, degli insulti, delle lotte che il giovane Giuseppe aveva affrontato per portare alla luce l’orrore della mafia.
Inizialmente, il suo sacrificio sprofondò sotto l’onda di informazioni sulla morte di Aldo Moro: Peppino pareva essere dimenticato, sottovalutato. Ma la sua voce continuò a echeggiare nelle bocche del fratello, degli amici, della madre, fino a risuonare per tutta Cinisi, per tutta la Sicilia, per tutta l’Italia. Quel giorno la nazione perse due simboli, due uomini che diedero la vita per i propri ideali di solidarietà, di fratellanza e di giustizia. Moro, che si fece portavoce di un governo in cui a ogni voce è dato ascolto, e Peppino, che gridò tutta la vita per proteggere chi era stato messo a tacere.
«Chistu unn’è me figghiu»
Dietro le vicende drammatiche di questi uomini così distanti e così simili, spicca una figura dietro le quinte. “Questo non è mio figlio”, scriveva Felicia Impastato, madre di Peppino. “Mio figlio era la voce/che gridava nella piazza […] era l’amore/che voleva nascere/che voleva crescere”.
Felicia era una donna inarrestabile. Fuggì di casa quando i genitori la promessero a un uomo che non amava, e gli disse fieramente che non l’avrebbero trascinata di forza all’altare. E, quando anni dopo scoprì che l’uomo che aveva scelto, Luigi Impastato, era legato alla mafia, non avrebbe voluto sposarlo più. Dalla loro unione non poteva che nascere un uragano, Peppino, seguito poi da Giovanni.
Quando la mafia la rese madre senza un figlio, ella ruppe pubblicamente i rapporti con gli uomini che le avevano strappato via Giuseppe, e aprì la propria casa alle giovani promesse che volevano seguire l’esempio del suo eterno bambino. Morì all’età di ottantotto anni e ci lasciò in eredità una delle più struggenti poesie scritte da una madre che piange il ricordo del figlio. “Questa bara piena/di brandelli di carne/non è di Peppino./Qui dentro ci sono/tutti i figli/non nati/di un’altra Sicilia.”
Mariadonata Di Lorenzo
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