Born in The U.S.A, il capolavoro di Bruce Springsteen, è stata una delle canzoni più fraintese della storia musicale del XX secolo. Come sarà probabilmente Air – La storia del grande salto, il quale dietro ad un ottimo film a metà tra il dramma sportivo e il biopic nasconde tante altre chiavi di lettura. Troviamo alla regia un superlativo Ben Affleck che recita anche e un fantastico Matt Damon, in una delle interpretazioni migliori della sua carriera. Impossibile non nominare Viola Davis, la splendida Deloris Jordan, mamma di Michael Jordan. Probabilmente la cosa più azzeccata di un ottimo film.

Air – La storia del grande salto: la famiglia come vero cardine

Air è la commistione perfetta tra un atipico dramma sportivo, in cui lo sport si vede solo nelle immagini di repertorio e un biopic. Un biopic, però, non su di un personaggio storico o contemporaneo, ma su di una scarpa. E sul concetto e la cultura, dietro quella scarpa. Perché si, l’importanza dell’accordo tra Nike e Jordan che viene raccontata in questo film è entrata di diritto, negli anni, tra gli eventi che più hanno cambiato la cultura e la società americana. Il film, quindi, non è solo il racconto di un accordo storico. Ma è, soprattutto, il racconto di come a quell’accordo ci si è arrivati. Ed è il racconto degli uomini e le donne che l’hanno reso possibile. La figura di Michael Jordan non è mai presente a schermo perché la sua figura, per quanto ruoti tutto attorno a lui, non è centrale nella narrazione. In Air Non si parla (nuovamente) di quanto sia grande Jordan. Si parla di quanto siano stati lungimiranti ed intelligenti Sonny Vaccaro e Phil Night. Di quanta forza aveva e ha Deloris Jordan e dell’ultimo vero baluardo di un sogno americano tanto caro agli statunitensi.

Air si apre con una serie di immagini di repertorio che catapultano lo spettatore direttamente nei pieni anni Ottanta americani. L’idea riporta, se vogliamo, alle sequenze iniziali di Space Jam. In questo caso, al posto della carriera di Michael Jordan, ci viene mostrato tutto il contesto statunitense degli eighties. Matt Damon, il protagonista del film, è il primo a comparire a schermo. Ci viene fatto subito capire, grazie al suo giocare ai dadi e alle scommesse sul basket, che è un uomo a cui piace l’azzardo, il rischio. Elemento che subito lo caratterizza e lo inquadra. Il film prosegue mostrandoci una Nike ben diversa da quella che conosciamo oggi. Non è il colosso industriale moderno, ma un’azienda di scarpe sportive che cerca la sua gloria nel mondo del basket, alla ricerca della nuova stella tra i Rookie da poter firmare. Sonny, in una scena che ricorda terribilmente la scrittura di Aaron Sorkin in Moneyball, riesce a captare in uno dei tiri più celebri del Jordan universitario, la sua unicità. In quella che viene definita dagli inglesi the gut, ovvero la sensazione istintiva, di pancia. Spiegherà questo concetto perfettamente a George Raveling, allenatore olimpionico interpretato qui da Marlon Wayans. La figura chiave con Sonny si interfaccerà per tutto il film è quella di Phil Knight, storico fondatore del brand Nike e qui interpretato dal fantastico Ben Affleck. Knight non è il classico CEO di azienda che potremmo aspettarci. Il tipo che non ha tempo per gli altri, che deve sempre rincorrere il successo ed evitare il rischio. Anzi, qui è disegnato come un uomo che sa ascoltare, che sa pescare la carta giusta quando serve e soprattutto si fida di chi ha intorno. La sua parrucca un po’ posticcia e quell’aria sognatrice, sfarfallata ma allo stesso tempo determinata lo rendono un personaggio dai mille volti e un comprimario perfetto per il ruolo in gioco. L’interpretazione di Affleck è perfetta. Posata, mai sopra le righe, con le attese perfette per rendere il personaggio intenso senza una vera profondità. Ben Affleck, ancora una volta, dimostra come riesca a tirare fuori il meglio di sé quando recita e dirige insieme.

Appese nell’ufficio di Phil ci sono le dieci regole della Nike del 1984. Una di queste recita “infrangi le regole”. Esattamente lo spirito che adotterà Sonny, nonostante il consiglio di amministrazione si aspetti che le regole vengano rispettate. E in una delle scene più potenti di Air, Vaccaro incontra Deloris Jordan, la vera stella della famiglia Jordan e vera manager del figlio Michael. In barba a tutte le raccomandazioni di Phil Knight e dell’agente di MJ, Sonny si presenta alla porta di casa. Qui ritroviamo ancora un altro momento alla Sorkin, in cui il dialogo fa da padrone. Attraverso un fantastico fuoco centrato sui volti di Viola Davis e Matt Damon, Ben Affleck riesce a restituire l’intimità del momento a schermo. E grazie alla sceneggiatura scritta da Alex Convery, capiamo ciò di cui vuole parlarci la pellicola. Il significato implicito del film è sul rapporto umano, sugli affetti familiari che vengono prima dei meriti sportivi e dei contratti milionari. Senza la rete di sicurezza della famiglia Michael non sarebbe da nessuna parte. Infatti, il discorso dei due, non verte direttamente sulle proposte di Nike, ma prima di tutto è un discorso umano, intimo. Sonny parla di sua madre e di come la famiglia Jordan verrà trattata dagli altri Brand, che vedono il figlio solo come un altro nome da copertina. La volontà dello swoosh è quella di nascere e crescere insieme a MJ, di portarlo alla ribalta e di lasciare qualcosa alle future generazioni per rendere il 23 dei Bulls immortale. Sicuramente il discorso di Sonny ha colpito Deloris che accetterà un incontro con Nike per sentire la loro proposta.

Questo concetto di famiglia e affetto familiare purtroppo non è affrontato direttamente dal personaggio di Matt Damon. Anzi, il suo nucleo narrativo familiare non è presente nel film. All’interno delle gerarchie Nike questo compito è affidato al personaggio di Rob Strasser, responsabile marketing dell’epoca in Nike. Nel film è interpretato da un ottimo Jason Bateman, che riesce a restituire al personaggio quelle note dolci da mentore e amico pronta a tutto per appoggiarti. Allo stesso tempo, queste note prendono delle ottave più amare quando il piccolo monologo legato a Born in the U.S.A viene fuori. Rob ha paura che l’intero progetto Jordan salti e che l’esile castello di carte della divisione basket della Nike cada. Ha una figlia che vede solo la domenica a cui regala scarpe Nike per mantenerne l’affetto in modo artificiale. Condito con una piccola critica allo sviluppo intensivo e al tardo capitalismo di cui il brand sportivo americano è complice diretto. L’intero discorso di Rob è una metafora, con la scarpa come significante e l’affetto sintetico, finto, legato solo a logiche di consumo come significato sintomatico. La piccola frase sulla produzione Nike a Taiwan e in Corea del Sud è una frecciatina che, per quanto piccola, porta ad una riflessione. Non era scontato esporsi con questi temi in un film sulla Nike e sul sogno americano in generale. E nonostante il concetto non venga approfondita ma solo abbozzato, la logica dietro è apprezzata. Anche se passerà probabilmente in sordina.

Un’atleta immortale

Nel terzo atto arriva il momento dell’incontro con la famiglia Jordan e con Michael per provare a portarlo sotto l’ala dello swoosh. La riunione, preparata giorno e notte dal gruppo sembra non andare come programmato. L’unico momento in cui vediamo Jordan muoversi è per appoggiarsi al bracciolo della sedia, in segno di noia. In uno sprint finale Sonny prende le redini della situazione e si lancia in un discorso non approvato. Figlio anch’esso di un’idea di scrittura Sorkiana, il monologo ancora una volta pone al di sopra del successo e del guadagno l’idea di famiglia, di crescita, di rete di sicurezza necessaria in un mondo che ti divora. È un discorso che nasce dalla illogicità, dal sentimento e dal gut feeling. Trascinante e commovente soprattutto per chi Jordan lo conosce e lo ama. Sembra di rivedere, in parte, quei momenti e qui discorsi da spogliatoio alla Quella sporca ultima meta o alla Coach Carter, pietre miliari del genere sportivo. Solo che dallo spogliatoio si passa alla sala riunioni, in un discorso motivazionale che più di sport parla di marketing, di brand e di immagine. Loro non sono lì per rendere Michael una macchina da soldi. Sono lì per renderlo immortale.

In conclusione, gli elementi che rendono Air – La storia del grande salto un gran film sono molteplici. Dalla regia pulita di Ben Affleck che rende il film in certi momenti quasi un documentario in presa diretta. Alla fotografia minimale del grande Robert Richardson. Alla sceneggiatura mai lenta e banale di Alex Convery, che elimina la figura di Jordan in un film su Jordan. Fino alla scelta del cast, azzeccatissima. Lo stesso Ben Affleck, Matt Damon, Jason Bateman e un fantastico Chris Tucker con un personaggio sopra le righe ma amalgamato benissimo. Punta di diamante è sicuramente Viola Davis, alla sua ennesima grande prova in carriera. Il suo personaggio diviene anche perno della dinamica raziale: donna e nera, è riuscita a tenere sotto scacco un’industria dominata da uomini bianchi. Insomma, tra tematiche familiari, dinamiche aziendali e anni Ottanta che si respirano da ogni fotogramma, Air ci ha convinti non poco e speriamo che possa convincere anche voi.

Alessandro Libianchi

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