Andrej Tarkovskij nasce il 4 aprile 1932 a Zavraž′e, cittadina russa sul Volga a nord- est di Mosca. Figlio di un poeta e traduttore e di un’attrice, è circondato sin dalla nascita dal rigido ma iper-creativo fermento culturale sovietico.

Negli anni della formazione si interessa soprattutto di musica, arte e letteratura, ma la formazione accademica non sembra fare per lui. Su pressione della madre, appena ventiduenne si trafserisce in Siberia con un team di geologi e minatori alla ricerca di giacimenti minerari. L’esperienza siberiana riavvicina in qualche modo Andrej a certe tensioni della propria più intima natura che la rigidamente laica educazione istituzionale sovietica aveva cercato invano di soffocare.

Andrej Tarkovskij : il tempo diverso degli spazi siberiani

Gli spazi immensi della taiga, la riduzione delle necessità esistenziali al minimo indispensabile, i lunghissimi trasferimenti lungo il fiume Kurejka. Un’esperienza che si rivela una vera e propria epifania, che Andrej onora dedicandosi al disegno per buona parte delle poche ore libere. All’arte figurativa manca però qualcosa: non è la forma espressiva con cui riesce davvero a manifestare la quantità di stimoli che l’esperienza siberiana gli ha dato. Una volta tornato a Mosca, ha capito quale sarà la sua strada: il cinema.

Dopo una severa selezione che accetta solo 15 candidati su più di 500, nel 1956 riesce ad iscriversi al Vgik, l’Istituto statale di cinematografia dell’Unione Sovietica. Dopo due anni di studi mette su carta la sua prima sceneggiatura, concentrata come da programma sull’avventura geologica in Siberia. Si chiama “Koncentrat” (“Concentrato”). Lo script verte sulla vicenda di un capo spedizione, in fremente attesa delle consegne di concentrati minerari provenienti dalle miniere. La sceneggiatura non troverà mai ulteriori sviluppi, ma tradisce immediatamente quello che sarà uno dei tempi più cari al regista, il tempo e la sua soggettività.

Andrej Tarkovskij: i primi lavori

Il materialismo storico è l’unica interpretazione possibile dell’arte cinematografica in ambito sovietico, ma Michail Room, suo insegnante e regista di punta dell’epoca, intuisce le potenzialità di Andrej Tarkovskij e non smetterà mai di incoraggiarlo nella ricerca di una via più personale alla regia. Dopo i primi, validi cortometraggi (“Assassini” 1956, “Non cadranno foglie stasera” 1957) nel 1962 il regista porta a compimento il primo lungometraggio. “L’infanzia di Ivan” è una narrazione di guerra cui fanno contrappunto quattro momenti onirici del protagonista della vicenda, il bambino Ivan, orfano di guerra.

Personalissimo, estremo e innovativo ha un grande successo fuori dai confini di casa (Leone d’Oro a Venezia) ma viene decisamente mal digerito in URRS. Troppo personale e disallineato rispetto alla narrazione ufficiale del regime, darà il via ad una serie di crescenti frizioni con il governo. Ad accentuare ulteriormente la tensione arriva nel 1966 la biografia dell’artista di icone “Andrej Rublev” ambientato nella Russia del 1400 martellata dalle invasioni tartare. Considerata una delle pellicole più importanti della cinematografia mondiale, segna il definitivo punto di rottura con il regime sovietico.

Troppo chiare e troppo ben apprezzate oltrecortina le allegorie di dissenso e la sua tensione alla trascendenza per fare finta di niente, : nonostante l’eccezionale successo in Europa in una versione pesantemente tagliata, la pellicola verrà pubblicata in URRS solo nel 1971 in un’assordante silenzio. Stesso destino viene riservato al successivo “Solaris” del 1971, il mastodontico adattamento che il regista fa dell’omonimo romanzo di Stanislaw Lem. Nelle intenzioni del regista lo sci-fi è solo un pretesto narrativo per approfondire delle riflessioni filosofiche e metafisiche sull’uomo, sulla coscienza e e sul rapporto di ognuno con l’infinito dentro di sé  e quello al di fuori.

“Solaris” e “Lo specchio”

Fatto a pezzi nella versione italiana curata da Dacia Maraini (cui Tarkovskji fece inutilmente causa) e infaustamente presentato come il “2001: Odissea nello spazio”sovietico, “Solaris” ha dovuto aspettare più di vent’anni prima di essere presentato secondo l’idea originale del suo creatore. Ben lungi dell’essere piegato, nel 1975 Andrej Tarkovskij porta in scena il più difficile e impenetrabile dei suoi lavori: “Lo specchio”. Di un fascino e una meticolosità tecnica unici, “Lo specchio” è quanto di più personale Tarkovskij abbia fin’ora portato su pellicola. Auto-coscienza pura di un regista che, giunto ai 40 anni, fa il punto sulla propria esistenza secondo quel lessico unico che ha ormai fatto proprio di onirismo, soggettività del tempo, insopprimibile afflato metafisico.

Rappresenta anche il momento in cui, ufficialmente, il regime sovietico gli vieta qualsiasi altra produzione cinematografica. Inizia così a dedicarsi alle regie teatrali: porta in scena Shakespeare, prova a mettere mano a un adattamento de “L’Idiota” di Dostoevskij mai realizzato. Tre anni dopo il Presidium del Soviet Supremo toglie al regista il divieto alla produzione cinematografica, e Tarkovskij ricomincia dove si era fermato. Con il proprio cinema. “Stalker” è l’ennesimo, fantasmagorico viaggio tra l’onirico e il reale di uno scienziato e uno scrittore all’interno di quella che viene definita “La Zona”, un’area ad accesso rigorosamente vietato dove si dice sia possibile realizzare i propri desideri.

“Stalker” e l’esperienza italiana

In quello che sembra un nuovo, più strutturato flusso di coscienza personale e collettiva russa Tarkovskij allegoreggia sulla fede, sulla conoscenza e sugli approcci dell’uomo ad essa, sul vero significato del desiderio e della realizzazione personale. E ci risiamo. Nei palazzi di regime “Stalker” fa storcere i nasi che contano e la pellicola viene trattenuta all’interno dei confini patrii. Riesce comunque a sorpresa a raggiunge Cannes, dove l’accoglienza è incredibile. Nel 1979 Tarkovskij ottiene dalle autorità il permesso di recarsi in Italia per collaborare con Tonino Guerra al documentario RAI “Tempo di viaggio”. Un’urgenza inizia a farsi spazio nella sua testa. Dopo essere tornato ancora in Italia a ricevere il David di Donatello per “Stalker”, nel 1982 inizia la lavorazione di “Nostalghia”, primo film prodotto al di fuori dell URRS.

Scritto assieme a Tonino Guerra, “Nostalghia” è l’ennesima, monolitica riflessione etica ed estetica dell’artista sull’artista, sul suo ruolo nel mondo, sull’irrisolvibile lutto dell’uomo lontano dalla madrepatria. Tarkovskij ha deciso. Il permesso per lavorare al di fuori dei confini patrii è esaurito ma, gli garantiscono, l’aria per lui si sta facendo sempre più pesante. Nel 1984 decide di interrompere i rapporti con la madrepatria, e inizia da esule volontario un’odissea geografica nel tentativo di far perdere le proprie tracce. Nel 1986 è ospite in Svezia di Ingmar Bergman, grazie al quale riesce a realizzare quello che sarà il suo ultimo film. “Sacrificio” è un meraviglioso dramma in cui riesce finalmente a riavvicinarsi alle tematiche dostojevskijane a lui tanto caro de “L’idiota”.

Gli ultimi anni

Celebrato con giudizi unanimi al Festival di Cannes, non riuscirà comunque ad ottenere la Palma d’Oro, dando il via ad una polemica politica e mediatica che conivolgerà persino l’allora presidente francese Mitterand. Già malato, nel 1986 riesce a ricongiungersi a Parigi con il figlio Andrej, fino a quel momento trattenuto in URRS. Morirà in clinica nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1986. Nonostante le pressioni sovietiche, la seconda moglie Larisa si oppone al rimpatrio, e ne decide la tumulazione presso il cimitero russo ortodosso parigino.

Andrea Avvenengo

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