L’interesse per il cibo ha radici antiche, eppure alcuni atteggiamenti moderni riflettono un classismo intrinseco che diventa, per forza di cose, specchio descrittivo della società. Chi possiede un elevato capitale culturale ha maggiori probabilità di decidere ciò che costituisce il gusto all’interno della società? A quanto pare sì: secondo il sociologo Pierre Bourdieu, infatti, il gusto è un elemento di distinzione sociale.

Il classismo, quel pregiudizio che passa anche dal cibo: un elemento di distinzione sociale

Cibo e classismo

Quando si parla di cibo si pensa alla convivialità che ogni boccone appaga, prima dell’appetito, la socialità; già nell’antichità si hanno testimonianze di lauti convivi in cui si conversava di temi più o meno altisonanti come, per esempio, lo stesso Simposio di Platone che ne è una conferma. Dietro un’aura gaia, salottiera e piacevole si nasconde, tuttavia, una sfumatura evidente che spesso si rifugge: il cibo ha in sé, insito, una parvenza i classismo abbastanza conclamata.

Le persone abbienti hanno sempre mangiato meglio dei poveri, fin dalla notte dei tempi. Cosa si mangia, quanto si mangia, come si mangia e la qualità dei viveri con cui ci si sfama è un’etichetta che determina un vero e proprio status sociale. L’atto del nutrirsi non è solo un’azione compiuta per placare un bisogno famelico, ma è una vero e proprio schema combaciante allo scheletro sociale del contesto in cui un soggetto si inserisce.  Jean–Anthelme Brillat–Savarin, agli inizi dell’800, scrisse nella sua opera Fisiologia del gusto:

“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”.

Un pensiero poi ripreso dal  filosofo Feuerbach attraverso la nota citazione “L’uomo è ciò che mangia”. Feuerbach dedica questa asserzione al Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850. Quest’opera mette per la prima volta al centro della società l’importanza culturale del cibo e la sua base ontologica, ponendo l’atto del nutrirsi all’origine del pensiero, delle differenze culturali e di classe di un’intera società.

La distinzione. Critica sociale del gusto: un saggio profetico di Pierre Bourdieu

Tra il 1963 e il 1968 il sociologo francese Pierre Bourdieu conduce una ricerca empirica ben esplicata nel saggio La distinzione. Critica sociale del gusto pubblicato nel 1979. Chi dispone di un elevato capitale culturale – laddove capitale culturale è da intendersi come bene sociale e non finanziario – ha il potere di determinare e definire cos’è il gusto all’interno di una società. Chi possiede un capitale culturale inferiore, invece, subisce in un certo senso la preferenza e il gusto imposto dai primi.

Accettare forme di gusto ”dominanti” è un esempio di violenza simbolica; ovvero una forma di violenza esercitata non con l’azione diretta della forza fisica ma attraverso una prevaricazione ideologica: l’imposizione di una data visione del mondo, dei ruoli sociali e delle idee attraverso cui è percepita e riconosciuta la società da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati. Rendere normale una egemonia che proviene dai ceti dominanti significa relegare chi non possiede capitale culturale – i dominati – a una negazione concreta di ridefinizione della propria visione sociale; arrecando, quindi, uno svantaggio effettivo a coloro i quali sono sovrastati.

Cibo e classismo: egemonia culturale attraverso le classi sociali

La scelta di alcune caratteristiche che implicano una estetica del gusto generano fazioni sociali allontanando, di conseguenza, una determinata classe sociale dalle altre classi sociali di una società. Quando un bambino predilige un determinato tipo di cibo, musica, sport o arte non è mai un gusto estetico proveniente da una attitudine individuale ma consiste in una facoltà dettata dalla società. Le predisposizioni, quindi, sono instillate sin da bambini in gusti specifici della classe di appartenenza; in tal modo si guida il fanciullo verso una posizione sociale appropriata per il suo status.

Il bambino interiorizza le preferenze e i gusti della classe sociale a cui appartiene, così come il comportamento indicativo di una data categoria, riflesso della sua condizione intesa come ”casta” vera e propria. Non solo: l’infante, e poi l’adulto, svilupperà addirittura avversione verso le preferenze e i comportamenti di altre classi sociali, dando vita a quell’indirizzo di pensiero noto come Classismo. Pierre Bourdieu parla, addirittura, di:

« Disgusto, provocato dall’orrore, o dall’intolleranza viscerale (“malessere”) dei gusti degli altri»

La distinzione. Critica sociale del gusto, Pierre Bourdieu

In quest’ottica il gusto diventa un esempio lampante di egemonia culturale, poiché essendo instillato in tenera età condiziona il soggetto e il suo contesto.

Il gusto, la sua valenza sociologica e il consumismo: omologazione in cambio di cosa?

La valenza sociologica del gusto tende a concretizzarsi all’interno del retaggio culturale di una fazione di classe; colui che ha precedentemente appreso una forma di gusto tenderà a identificarsi in modo perenne come appartenente a una determinata categoria, impedendo la mobilità sociale.

I gusti culturali della classe dominanti eserciteranno, in questo modo, una pressione egemonica capace di influenzare le classi dominate. In altre parole, chi appartiene a una classe sociale inferiore – economicamente e culturalmente – si conformerà alle scelte estetiche di coloro i quali risultano dominanti; ciò avverrebbe per timore di rischiare un certo tipo di disapprovazione sociale.

Per parafrasare Pier Paolo Pasolini, il proletariato si omologherebbe alla borghesia attraverso la civiltà consumistica auspicando una egualitaria distribuzione dei beni di consumo e rinunciando, in cambio, alla lotta di classe.

Uno sguardo all’attualità sociologica: il caso Benedetta Rossi

Le pietanze consumate da un gruppo di soggetti dicono molto su una data cultura. Esistono cibi tradizionali che caratterizzano una determinata area geografica, prodotti tipici regionali, tradizioni culinarie tramandate nel tempo. Ma con l’avvento dei social il cibo è, soprattutto, diventato ”immagine sociale”; è sempre esistito un ”cibo per ricchi” e un ”cibo per poveri”, sin dal Medioevo. Se spesso la carne è associata alla classe medio-bassa, il pesce è invece agguagliato alla classe più abbiente. In sostanza, si mangia ciò che ci si può permettere: in questo modo aumenta il fenomeno del Food Social Gap, ovvero, il divario sociale alimentare fra ricchi e poveri. Una società che rischia di tornare indietro, non solo a livello alimentare ma anche ideologico.

Un recente caso di classismo culinario lo dimostra: è il caso della nota food blogger Benedetta Rossi che è stata aspramente criticata per l’utilizzo di prodotti economici nelle sue ricette. Andare al discount è, quindi, oggetto di derisione da parte di qualcuno che si nutre attraverso la gastronomia esclusiva? C’è forse un evidente poco contatto con la realtà, a riguardo, o con molta probabilità una condizione di privilegio che non consente ai classisti culinari di empatizzare con chi deve per forza di cose far quadrare i conti.

Cibo, classismo e ”industria culturale”

Oggi la società si divide in due fazioni: le élite e la classe media, in cui i membri di una classe difficilmente riescono a sconfinare nell’altra. Prevale, imperante, la massificazione di modelli di vita appartenenti alla classe abbiente, dal divertimento, alla moda e, anche al cibo. Tutto ciò è possibile soprattutto grazie alla sovraesposizione da social, dove chiunque mira a mostrare una vita estetizzata all’estremo; l’Io si rimpingua con l’estetica di massa, anche attraverso una foto in un locale esclusivo da postare sui social, per esempio. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, due filosofi appartenenti alla Scuola di Francoforte, introducono per la prima volta il concetto di ”industria culturale”. Questo paradigma socioculturale, apparso nel saggio Dialettica dell’Illuminismo (1947), designava un processo di riduzione della cultura a semplice merce di consumo.

Secondo i due filosofi i mass media operavano un processo di manipolazione delle menti. La televisione, i giornali, ( e oggi i social, anche) erano il riflesso di una logica capitalistica che andava ad allineare le coscienze attuando un fenomeno di omologazione sempre più dilagante. L’industria culturale, in questo senso, è quindi subdola: sussurra, indirettamente, alle masse le idee per cui battersi, i valori a cui aspirare, gli stili di vita, le attività ludiche e sì, persino il cibo da consumare, in quest’ottica.

Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro […] Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità è che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente“.

(Horkheimer e Adorno, ”Dialettica dell’illuminismo”, 1947; trad. it. 1966, pp. 130-131).

Oggi il classismo alimentare è, purtroppo, un prodotto dei social figlio dell’opulenza, della deriva consumistica e dell’ostentazione a prescindere. Thorstein Veblen attraverso il concetto della “vistosità dei consumi” è chiaro; la funzione ostentativa di ciò che si possiede influenza il contesto in cui l’ostentazione si realizza. Il bene costoso diviene oggetto desiderabile e questo anche grazie alla facilità di mostrare sui social una vita patinata; oltre che alla ampia fruizione di accesso alla vita altrui che si ha attraverso il web.

Stella Grillo

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