Gli anni in cui Donald Trump sognava l’NFL

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Di Redazione Metropolitan

Anno 1981: un giovane imprenditore di New York e altri cinque soci cercano di mettere le mani su un team di NFL, ma l’offerta viene respinta. Quell’imprenditore si chiama Donald Trump ed è in quel momento che la sua battaglia contro la più grande lega di football americano al mondo ha inizio.

Fin da quando è riuscito ad insediarsi nella Casa Bianca, Donald Trump non si è mai tirato indietro dall’attaccare e criticare pubblicamente l’operato dell’NFL e dei proprietari dei team.

Di certo, la lega è sempre stata una sorta di facile bersaglio per le critiche, soprattutto da parte di milioni di appassionati. Ma Trump è riuscito a spingersi oltre perché non si è soltanto limitato a dare un suo giudizio critico riguardo a tutto quello che accadeva, ma ne ha fatto un vero e proprio muro maestro dei propri comizi.

Quale miglior modo per colpire gli animi di milioni di statunitensi, se non quello di tenere alto l’onore della Patria attraverso lo sport più seguito dagli americani?

Trump NFL MMI
(Baller Alert)

Dopo la nascita del Take a Knee Movement, l’ira del Presidente si è scatenata anche contro i giocatori.
Non tutti, ovviamente, ma solo contro quelli che usano questo sport per far leva sull’opinione pubblica.

Quello desiderato da Trump è una specie di bavaglio, che dovrebbe imporre ai giocatori di non impicciarsi di tutto quello che accade fuori dal campo di gioco.
E qualcuno avrebbe dovuto spiegarlo, a Kaepernick e compagni, che la loro protesta durante l’inno nazionale per difendere gli afroamericani dalle ingiustizie sociali non avrebbe fatto altro che fomentare l’ondata di critiche nei confronti di questo sport e li avrebbe costretti al licenziamento.

Licenziamento che è pienamente appoggiato da Trump. Lo disse esplicitamente, in uno dei suoi tanti discorsi populisti: quello tenuto ad Huntsville, in Alabama, nel settembre 2017.
Non risparmiò nessuno, né giocatori né proprietari.

Non vi piacerebbe vedere uno di questi proprietari, quando qualcuno manca di rispetto alla nostra bandiera, dire, ‘Fai uscire immediatamente quel figlio di p*****a dal campo. Fuori! È licenziato. È licenziato!’“.

Diede anche il suo personale permesso ai tifosi di abbandonare lo stadio qualora a qualche giocatore gli fosse venuto in mente di inginocchiarsi durante l’inno nazionale per protesta: “Se lo vedrete ancora una volta, anche se si tratta di un solo giocatore, abbandonate lo stadio. Vi garantisco che queste cose finiranno immediatamente“.

Ma d’altronde, la voglia di Trump di svuotare gli stadi e far decadere l’NFL dal proprio dominio sportivo ha radici più profonde.

L’offerta respinta e l’approdo in USFL

Trump cercò di entrare a far parte dell’NFL circa 37 anni fa, quando fece un’offerta per acquisire i Baltimore Colts.

Nel 1981, infatti, arrivò a Robert Irsay (all’epoca proprietario del team) un’offerta di 50 milioni di dollari. L’offerta venne avanzata da un gruppo di sei soci, tra i quali vi erano anche George Herbert Allen (coach di football americano) e Donald Trump.

Irsay però la rifiutò e dichiarò alla stampa: “Molte persone hanno cercato di comprare il mio team. Sono stato felice di ricevere le loro offerte ma ho chiamato Pete Rozelle (l’allora commissario NFL, ndr) e gli ho detto che ero a posto così“.

Evidentemente, questa iniziale sconfitta non venne molto gradita dall’attuale presidente statunitense ed è per questo che qualche anno dopo decise di spostarsi altrove.

All’inizio degli anni ’80, l’NFL era la regina indiscussa del football americano. Era la lega più seguita sia negli stadi che in televisione.
Per contrastare questo suo monopolio, venne creata, nel 1982, una nuova lega di football denominata United States Football League (USFL).
La sostanziale differenza era nella programmazione della regular season: in pratica, l’USFL cominciava quando la stagione NFL finiva (ovvero in primavera).

Trump, che probabilmente non aveva ancora mandato giù quell’offerta che gli era stata rifiutata, decise di investire in un team di USFL. È così che, nel 1983, divenne il proprietario dei New Jersey Generals dopo una trattativa che lo vide sborsare la cifra di 10 milioni di dollari.

Trump USFL
(AP)

L’iniziale obiettivo del presidente americano era quello di riuscire a mettere le mani in un team di NFL. In un meeting con tutti gli altri proprietari dell’USFL tenutosi nel 1984, disse: “Non vi conosco e non so quanti soldi avete, ma io ho i soldi per entrare in NFL. Ed è lì che voglio arrivare“.

Così come scritto da Jeff Pearlman nel libro Football for a Buck: The Crazy Rise e Crazier Demise of the USFL, l’incapacità di riuscire ad essere un proprietario NFL ha contribuito a renderlo così ostile nei confronti della lega.

Dopo aver comprato i Generals, infatti, Trump organizzò un incontro privato con Pete Rozelle, durante il quale gli confidò le sue intenzioni di voler comprare un team della massima lega di football. La risposta dell’allora commissario fu spiazzante, in quanto gli disse chiaramente: “Finché io sarò in NFL, tu non avrai mai la possibilità di farne parte“.

Il fallimento dell’USFL

Sicuramente, una personalità come quella di Trump faceva molto comodo all’USFL, in quanto quest’ultima aveva bisogno di pubblicizzarsi nel miglior modo possibile.
Lui voleva investire davvero tanto nei Generals, poiché aveva intenzione non tanto di un team in grado di competere in USFL ma “di un grande team per competere in NFL“.

Trump New Jersey Generals
Herschel Walker, vincitore dell’Heisman Trophy dell’82, firma il suo primo contratto da professionista con i Generals di Trump (Dave Pickoff/AP)

Tuttavia, i suoi tentativi di mettere sotto contratto gente del calibro di Lawrence Taylor e Don Shula falliscono miseramente.

Purtroppo per Trump, l’USFL non era tanto appetibile per i giocatori di NFL. Molti team, infatti, non erano abbastanza competitivi ed avevano nei loro roster gente con problemi di droga o alcol.

Nonostante la lega primaverile abbia lanciato futuri campioni del football americano come Jim Kelly, Steve Young e Doug Flutie, dopo sole tre stagioni fallì.
Ed il suo fallimento è dovuto principalmente a Trump.

Le sue intenzioni erano quelle di voler fronteggiare direttamente l’NFL, facendo iniziare la regular season USFL in autunno. Durante un incontro con gli altri proprietari disse: “Se Dio avesse voluto vedere il football in primavera, non avrebbe mai creato il baseball!”.

Così riuscì a convincere tutti gli altri proprietari a citare in giudizio l’NFL per cercare un accordo per la spartizione dei diritti televisivi. La causa legale durò 48 giorni e la richiesta dell’USFL era di 567 milioni di dollari.
Trump e gli altri proprietari riuscirono a vincere la causa, ma il risarcimento deciso dal giudice fu di solamente 1 $.

Trump USFL
(Marty Lederhandler/AP)

A quel punto, i proprietari decisero di non iscrivere i loro team alla stagione successiva.

Altri tentativi per entrare in NFL

Nel 1988, la famiglia Sullivan, allora proprietaria dei New England Patriots, si ritrovò a dover affrontare numerosi problemi finanziari.

Alcune mosse di mercato errate fecero letteralmente precipitare il patrimonio familiare, tanto che lo stesso team era a rischio fallimento.
A tal proposito, Billy Sullivan contattò personalmente Trump per convincerlo ad acquisire il team.

Indubbiamente, Trump era molto attratto da questa proposta anche perché proprio due anni prima aveva sì vinto una causa legale contro l’NFL, ma questo costò anche la dissoluzione della USFL.

Però i rischi dell’operazione erano molto elevati.

Una fonte vicina a Trump, infatti, dichiarò al Boston Globe che: “Donald era molto interessato e sentiva che i Sullivan erano onorati nel fare affari con lui. Ma tra squadra e stadio vi erano debiti per 104 milioni di dollari e questo era ingestibile“.

Alla fine, Victor Kiam acquistò il team per 84 milioni di dollari che pochi anni dopo venne nuovamente ceduto.
Questa volta il team venne acquistato da Robert Kraft per 172 milioni di dollari.

Forse, questa è stata la vera fortuna dei Patriots, che sotto la gestione di Kraft hanno raggiunto, secondo Forbes, il valore di 3,9 miliardi di dollari.

L’ultimo legame con i Patriots, seppur indiretto, è successivo allo scandalo Deflategate, dopo il quale Trump invitò Tom Brady (da lui considerato un amico, ma non ci è dato sapere se questa amicizia è ricambiata dal quarterback) a denunciare l’NFL per diffamazione e chiedere un risarcimento danni di 250 milioni di dollari.

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Un ennesimo, e nuovamente fallimentare, tentativo di investire in NFL avvenne nel 2014.

Si trattava dei Buffalo Bills

Nella primavera di quell’anno, morì il fondatore del team, Ralph Wilson Jr., e Trump era molto interessato a diventarne il nuovo proprietario.
Proprio per questo partecipò ad un’asta per aggiudicarsi la proprietà del team, ma dovette cedere all’offerta di 1,4 miliardi di dollari fatta da Terry e Kim Pegula (i proprietari dei Buffalo Sabres, squadra di hockey su ghiaccio).

Da allora, come sempre, Trump non perde occasione di rinfacciare all’NFL il calo di ascolti degli ultimi anni e la scarsa qualità del gioco e ringrazia il cielo di non essere riuscito mai a farne parte in qualità di proprietario.

Ma tutto questo, sembra qualcosa di già letto. Il suo comportamento ricorda vagamente la vecchia storia della volpe e l’uva.

E, forse, dovremmo essere noi a ringraziare il destino per non avergli concesso l’opportunità di coinvolgerlo anche negli affari dell’NFL.

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Antonio Campana