Cultura

Van Sant, un linguaggio visivo di sperimentazioni e cinema classico

Quella del regista Gus Van Sant – che oggi compie 70 anni – è una produzione ampia e poliedrica, composta da una moltitudine di progetti, anche minori rispetto all’istanza cinematografica più classica. Conservando un forte sguardo autoriale Van Sant oscilla tra cinema interno ed esterno a Hollywood; è capace d’incarnare un’anima indipendente underground e – al contempo – lo spirito del grande cinema americano classico.

Tendenze e ispirazioni di Van Sant

Der Zweifel
Elephant (2003)

Nonostante il riconoscimento più che positivo dei suoi film degli anni ’80 e ’90 è all’inizio del nuovo millennio – con la Trilogia della Morte – che raggiunge l’apice della sua indagine sul cinema e sull’immagine. Gus Van Sant si nutre di ispirazione: guarda sia al cinema sperimentale di Brakhage e Warhol che a quello di grandi maestri come Welles, Hitchcock e Kubrick, fino ad arrivare al cinema europeo di Godard, Visconti e Tarr. Un universo in movimento, storie di reietti, controcultura, vagabondi e minoranze. Si può parlare di un cinema in continua e duttile evoluzione. Un percorso originale e mutevole attraverso l’immagine cinematografica.

Adolescenza e movimento, due chiavi di lettura nei film di Van Sant

Van Sant non si è dedicato unicamente al cinema, che resta la sua forma d’arte congeniale, ma ha spaziato dalla pittura alla fotografia – come la raccolta di ritratti 108 Portraits –, dalla musica alla letteratura. Per quanto riguarda il cinema il regista continua ad indagare temi, figure e ossessioni in modo ripetitivo a con linguaggi ed immagini sempre diverse. Tra i suoi principali interessi appare sicuramente l’universo adolescenziale, mostrato in tutta la sua complessità.

L’occhio della macchina da presa è attirato, fin dall’esordio in bianco e nero con Mala Noche (1985), da figure di giovani reietti, ai margini della società, che vivono per la strada. Altro tema è il movimento, quello continuo dei suo protagonisti, appartenenti ad una generazione “mobile”, che vive sospesa tra due età. Giovinezza e maturità nella ricerca della propria identità. Adolescenza e movimento si offrono dunque come chiave di lettura delle diverse fasi della metamorfica filmografia di Gus Van Sant.

Tentativi di produzioni mainstream ma cuore indipendente

il suo brevissimo rapporto col cinema mainstream ha portato a pochi alti, tra cui il grande successo di Will Hunting – Genio ribelle (1997), e a molti bassi come il disastroso all’epoca, ma ora rivalutato, remake shot-by-shot di Psycho (1999). Non è un caso dunque se dopo appena tre anni di Hollywood Van Sant torni al suo adorato cinema indipendente con la cosiddetta Trilogia della morte, formata da Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005).Tra i tre Elephant è stato il film più apprezzato dalla critica: vincitore della Palma d’oro al miglior film e del premio per la miglior regia al 56° festival del cinema di Cannes.

Elephant

Il film prende liberamente le mosse dal massacro realmente accaduto della Columbine High School del 1999. E’ condotto attraverso un esasperato realismo che mira a immergere e al contempo estraniare lo spettatore. Il realismo si manifesta sin da subito nella scelta di far interpretare i giovani protagonisti da attori non professionisti ai quali viene lasciata quasi piena libertà di improvvisazione. Van Sant segue i diversi studenti del liceo nelle loro abituali attività tra paranoie, complessi, problemi relazionali tipici dell’età adolescenziale.

Dalla mera descrizione delle vite dei protagonisti non sembra traspaia niente di particolare a livello di sceneggiatura, la peculiarità del film consiste infatti nel modo in cui il regista segue i personaggi. Posizionando la steadycam per la maggior parte delle riprese alle loro spalle, Van Sant segue i ragazzi con lunghissimi piani sequenza che cercano di restituire quel senso di realtà virtuale dei videogiochi dei primi anni 2000.

L’estraniamento e il falso realismo di Van Sant

Van Sant opera un estraniamento che sarebbe poi la manifestazione della nuova realtà – o della sua percezione – tipica del mondo contemporaneo. In quest’ottica rientra il procedimento stilistico della ripetizione: il regista ci fa vedere lo stesso avvenimento da diversi punti di vista, una realtà frammentata, soggettiva. Il regista segue di spalle anche i due ragazzi, Eric e Alex, responsabili della strage, provocando un corto circuito nella mente dello spettatore. Chi potrebbe sentirsi rappresentato da due carnefici? Eppure lo siamo.

Ma la strage non è opera di due psicopatici, la strage è opera del sistema che emargina, ghettizza, bullizza. Ed è opera nostra in quanto legittimiamo quel sistema. Il significato provocatorio è evidente nello stesso titolo: l’allusione è all’elefante nella stanza, metafora di un problema che tutti vedono ma di cui nessuno vuole parlare. L’obiettivo è dunque creare un senso di inquietudine all’interno dello spettatore, non farlo sentire purificato, piuttosto colpevole. Perché siamo tutti colpevoli dei – purtroppo frequenti e reali – drammi come quello della Columbine High School.

Alessia Ceci

Seguici su Google News

Pulsante per tornare all'inizio