È il 2001, e in una lussuosa villa di Pasadena un’ elegante donna in perle e tailleur ha appena lanciato un polpo dritto in faccia al padrone di casa, al culmine di una battaglia combattuta a colpi di torta e zuppa. No, non è la trama dell’ultimo film di Wes Anderson, ma il clou del leggendario videoclip di Sing, probabilmente il pezzo di maggior successo dei Travis. Il gruppo, nato a Glasgow nel 1995, è universalmente riconosciuto come precursore, insieme agli Oasis e i Blur, di realtà britanniche quali i Coldplay o i Keane, che hanno sempre ammesso di aver tratto ampiamente ispirazione dalla loro musica.

Il nome scelto da Francis “Fran” Healy e soci deriva dal protagonista di Paris, Texas, pellicola del 1984 diretta da Wim Wenders. Nel 1996 debuttano con Good Feeling, ma la svolta arriva nel 1999, grazie a The Man Who, il cui titolo cita il romanzo di Oliver Sacks The Man Who Mistook His Wife for a Hat, che li lancia nell’Olimpo del britpop. Oggi, a un quarto di secolo di distanza da quel disco, e quattro anni dopo 10 singles, pubblicato nel 2020, i Travis tornano con L.A. Times. Il decimo album in studio, anticipato da Gaslight, Raze the Bar e Bus, si discosta dalle origini, spazia tra i generi e sperimenta, pur non alterando l’anima della band.

“L.A. Times”, il nuovo disco dei Travis: sonorità a stelle e strisce e vecchi amici

Travis L.A. Times
I Travis nella copertina di L.A. Times

L.A. Times cattura l’attenzione dell’ascoltatore sin dalla prima nota di Bus. Il brano, che ha preceduto l’uscita del disco, introduce ciò che seguirà. Un sound dalle tinte barocche, che richiama l’indie degli islandesi Of Monsters and Men e si mescola con una chitarra acustica alla Tom Petty. L’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Continente, un dualismo che si ripeterà spesso. Raze The Bar, seconda traccia e secondo estratto, affronta la chiusura del Black & White Bar, locale newyorkese amato da musicisti e creativi, dai The Strokes al “Padrino” della street art Richard Hambleton. Healy immagina l’ultima notte del bar, mentre i frequentatori abituali del Greenwich Village si ritrovano e si congedano, in un’atmosfera agrodolce. Per l’occasione, chiama dei rinforzi d’eccezione. Chris Martin e Brandon Flowers, leader dei The Killers, si uniscono al party, mettendo le loro voci al servizio di un coro che sa di gospel e di addio.

Si torna su un terreno più familiare agli scozzesi con Live it All Again, testimonianza tangibile del talento autoriale del frontman e del suo inconfondibile falsetto, che ci trascina in una dimensione onirica e suggestiva. Gaslight, primo singolo dell’album, ci riporta sulla Terra con un giro di tastiere in cui riecheggiano le influenze musicali dei quattro di Glasgow, che affondano in un pop divertente e beatlesiano. In alcuni passaggi si ha la sensazione di essere stati catapultati negli anni Sessanta, dove i Travis sono diventati i The Kinks, scanzonati e leggeri. L’assolo di chitarra finale è una sferzata d’energia.

Generi diversi, stessa anima

È un folk che punta dritto al cuore, quello di Alive. L’elemento corale importante e ricorrente ci ricorda che siamo vivi e che dobbiamo esserne grati, nonostante le brutture del mondo. Un inno di speranza e umanità che diventerà uno dei momenti più emozionanti durante i live, c’è da scommetterci. Così come c’è da scommettere sul fatto che Fran abbia visto una volta o due The Graduate, cult movie del 1967 con Dustin Hoffman. L’intro di Home ha dei fortissimi rimandi a Mrs Robinson, capolavoro di Simon & Garfunkel, presente nella colonna sonora, ma è il battito di mani verso la fine a rimanere in testa.

I Hope That You Spontaneously Combust dice tutto già nel titolo, ed è un breve, ma significativo trattato di delicata perfidia. Un groove calmo, à la Beck, maestro californiano del lo-fi, e un testo che non le manda a dire, ma con classe. Naked in New York City si spoglia di ogni orpello stilistico, strumentale e vocale e ci regala un Fran Healy essenziale e intimo. Imbracciata la chitarra acustica e donandole vibrazioni degne di Joni Mitchell, il timbro pacato del cantante raggiunge nuove profondità. La nudità trattata è emotiva, e si sente; la vulnerabilità traspare in ogni parola, per poi dissolversi tra le ultime note.

Il “sogno americano” dei Travis

The River ci spiega perfettamente cosa intenda Chris Martin quando parla di aver attinto a piene mani dai Travis. Con il suo ritmo trascinante, le percussioni e i cori, il brano potrebbe, senza alcun problema, entrare nella discografia del gruppo londinese, con una punta di Bruce Springsteen qua e là. Dopotutto siamo negli USA, che diamine. E a ricordarcelo, una volta per tutte, ci pensa l’ultima traccia, la title track L.A. Times. Un elicottero e la sirena di una volante della polizia ci gettano brutalmente nella Big City life, dove non c’è spazio per la poesia. Ed è, in effetti, una canzone che lascia poco alla tenerezza, tra il “quasi rap” di Healy nella strofa-più parlata che intonata- e nei “fucking” ripetuti con insistenza. La melodia di un pianoforte s’insinua timidamente tra le barre, per poi prevalere nel gran finale, in prevalenza strumentale.

Una chiusura inusuale e sicuramente distante dal sound ben più british al quale siamo abituati, ma la loro voglia di cimentarsi con ciò che esula dalla loro abitudine è apprezzabile e dimostra la serietà di una band che troppo spesso è rimasta ai margini della scena musicale internazionale, ma che ha molto da dire e che continua a farlo, mettendosi in gioco senza snaturarsi. L.A. Times è un buon lavoro, che sa alternare novità e passato, USA e UK, in un mix in grato di accendere la curiosità di chi non li conosce e, al tempo stesso, rassicurare i millenials nostalgici a caccia di ricordi. Nulla da temere, sono sempre i Travis. E sono di nuovo qui.

Federica Checchia

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