Lewis Allan “Lou” Reed, è stato uno dei padri della canzone americana. Una vita dedicata alla musica, una icona del rock ma anche della beat generation che, in quegli anni, trovava fermento in diverse aree artistiche. Fondamentale per il binomio letteratura e musica, Lou Reed si è fatto interprete di una scena artistica inarrivabile per innovazione e avanguardia.
La poetica scalfita nel tempo, ci porta lontano per le strade di New York, sua città natale dove nacque nel 1942. Ma non solo. Tante saranno le amicizie e i rapporti artistici intrapresi con artisti del calibro di David Bowie e Mick Ronson.
Proprio grazie a questo magnifico scambio, Lou Reed è pronto a dare alla luce una delle sue creature più affascinanti. La perla, in questione, sarà un disco in particolare, intitolato “Transformer“, dove ci sono canzoni che rimarrano classici senza tempo: “Vicious“, “Perfect Day“, “Walk on the Wild Side” e “Satellite of Love“. Più che canzoni, sono degli stili di vita. Inconfondibili e sporche, poesie amare ma necessarie per distribuire una redenzione dopo il peccato terreno. Transformer è un disco che aveva brani pienamente corrispondenti all’estetica, sia dal punto di vista musicale che dell’ideologia, dell’allora dilagante glam rock. Uno stile, una moda ormai perduta tra le scartoffie di vecchi scatoloni in soffitta.
Lou Reed ha da sempre incarnato quell’animo punk, ma anche questa è una etichetta antiquata. Tutto, quando si parla di tempi che furono, si incatena ad una triste convinzione dello scorrere inesorabile di una clessidra. Nostalgia è il sentimento adatto per descrivere queste sensazioni di noi vecchi (e giovani) appassionato di un era che ha visto il suo tramonto prima della morte fisiche di queste personalità. Cantautore crudo e ironico dei bassifondi metropolitani, dell’ambiguità umana, dei torbidi abissi della droga che fu piaga di quella generazione, ma anche della complessità dei rapporti interpersonali, Lou Reed ha finito con l’incarnare lo stereotipo del poeta maledetto. Degno erede dei Baudelaire in musica con cui ha contribuito a stravolgere il costume di un periodo difficile.
Lui stesso ha dichiarato: “Ho scritto pezzi come Heroin per esorcizzare l’oscurità, l’elemento autodistruttivo dentro di me, e speravo che la gente li interpretasse allo stesso modo. Ma quando ho visto come reagivano, è stato irritante. La gente veniva da me dicendo che si faceva iniezioni ascoltando Heroin, cose del genere. Ho pensato che alcune delle mie canzoni abbiano oggettivamente contribuito a rendere popolari queste dipendenze e a portare i ragazzi a ciò che sono oggi. Ora non lo penso più. È una cosa troppo brutta da pensare.”
Di assoluto interesse culturale e artistico è anche la collaborazione con Andy Warhol nella Factory più in degli anni ’60. Nella Factory, si potevano incontrare le menti dei personaggi più anticonformisti, per dirla in parole povere, di tutti quegli artisti che in qualche modo hanno fatto breccia nel cuore di tutti per il loro spirito libero. Tra di loro, si aggirava anche Lou Reed. Combaciava parecchio con quell’ambiente e di fatti Warhol non se lo lasciò sfuggire includendolo nella sua cerchia di artisti con la quale creare qualcosa di intramontabile e scioccare il mondo intero.
Il prodotto di questa fantastica collaborazione è uno Screen Test in bianco e nero. Per un paio d’anni, tra il ’64 e il ’66, Andy Warhol ha registrato circa cinquecento ritratti video delle persone che gli stavano intorno. Chiaramente erano ritratti girati a modo suo: metteva una pellicola da tre minuti nella videocamera e lasciava che le cose succedessero. I video di Andy erano muti e mandati a rallentatore con 16 fotogrammi al secondo.
Nel caso di Lou Reed, appunto, si possono vedere i fotogrammi scorrere, il video fiorire in una rappresentazione abbastanza strana. Non è “normale” infatti vedere tre minuti di videoclip, concentrati solo sul gesto di avvicinare alla bocca la bottiglietta in vetro targata Coca Cola, fare qualche sorso e poi guardare di nuovo in camera. Non è un però un Screen test muto, infatti possiamo sentire il brano “I’m Not a Young Man Anymore”, traccia firmata Velvet Underground, 1966. Altri celebri frequentatori della Factory e importante gruppo per la formazione di Lou Reed.
Articolo a cura di Gianrenzo Orbassano
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