
“Un mattino Anders, un uomo bianco, si svegliò e scoprì di essere diventato di un innegabile marrone scuso”.
L’Ultimo uomo bianco, M.Hamid
Così inizia l’ultimo romanzo dello scrittore pakistano Mohsin Hamid. Uscito quest’anno è il racconto di un uomo che affronta, dall’oggi al domani, una realtà distopica che costringe lui, in particolare, e la comunità, in generale, a rivedere secoli di pregiudizi e discriminazioni. Ecco la recensione de “L’ultimo uomo bianco”.
“L’ultimo uomo bianco”, la privazione d’identità apparente
“L’ultimo uomo bianco” di Mohsin Hamid, racconta la storia di Anders. Un giovane uomo, che lavora in palestra, alle prese con una vita alquanto normale, seppur segnata da un lutto importante. Anders ha una relazione con Oona, giovane insegnante di Yoga, sua ex compagna di studi, anch’essa segnata dalla perdita prematura del padre e da quella violenta del fratello. Sono loro i protagonisti di questo breve romanzo. Loro, insieme ai rispettivi genitori. La mamma di Oona, è una donna convinta della supremazia bianca e del complotto che crede nella sostituzione etnica. Il padre di Anders, è un uomo malato che non si è mai realmente ripreso dalla perdita della moglie. Sarà proprio lui, a sua insaputa, l’ultimo uomo bianco.
La vicenda si sviluppa nell’arco di qualche anno e racconta la storia di quest’uomo che una mattina si sveglia e si ritrova nero. A cambiare non è solo il colore della sua pelle ma l’intero suo aspetto si etnicizza. Superato lo shock iniziale, Anders cerca di trascorrere una vita quanto più simile alla precedente, ma si renderà presto conto che quel cambiamento “apparente” ha delle conseguenze che non possono essere ignorate. Oltre al colore della pelle, cambia di conseguenza il punto di vista. Non solo il suo nei confronti del mondo, ma anche e soprattutto quello del mondo nei suoi confronti.
Critica non troppo velata alla società americana
“Un uomo bianco aveva sparato a un uomo dalla pelle scura, ma l’uomo dalla pelle scura e l’uomo bianco erano la stessa persona”
L’ultimo uomo bianco, M.Hamid
La “stessa persona” appunto. Ed è proprio in questa frase che si racchiude un po’ il senso di tutto il racconto. È palese la critica alla società (sicuramente l’autore si riferisce agli Stati Uniti, dove ha vissuto e studiato) e attraverso questo evento quasi magico, la storia si trasforma in una sorta di allegoria al razzismo. La spinosissima questione politica e sociale del razzismo, è affrontata in questo modo con leggerezza ma la lettura costringe comunque il lettore alla riflessione.
Interessante è, il mood apocalittico dell’intero romanzo. Anders infatti, non è l’unico uomo bianco che affronta il cambiamento epidermico. Piano piano, tutta la città si trasforma e diventano tutti neri, fino a quando la maggioranza diventa minoranza e viceversa. Il periodo di transizione termina quando l’ultimo uomo bianco, il padre di Anders, viene seppellito prima della trasformazione. La città diventa così lo scenario di sommosse, caos e violenze, fino a quando tutto non si ristabilisce e ci si abitua alla nuova normalità. Certamente è una realtà distopica quella che ci racconta Hamid, ma proprio per questo ci costringe a riflettere: cosa succede quando la minoranza nera diventa la maggioranza e sono loro a guardare con sospetto la nuova minoranza bianca?
E noi come la prenderemmo?
Angoscia, disperazione, incredulità e alla fine adattamento. Queste quattro sensazioni è costretto a provare Anders, tutti gli abitanti della città e anche il lettore. Il romanzo si legge facilmente e in poco, ma la lettura non è così immediata e semplice come sembra. Hamid scrive frasi lunghissime, che a volte prendono l’intera pagina e sono divise solo da virgole. Sembra di essere nella mente del protagonista che butta giù una serie di interminabili pensieri come un flusso. In alcuni punti, le frasi sono talmente lunghe che si rischia di perdere il filo del discorso. Le ripetizioni, a volte ossessive, però, ben rendono l’idea dell’angoscia della situazione.
Nel romanzo di Hamid non c’è una morale. Più si va avanti con la lettura e più ci si chiede: “ma quindi?”. Lo scrittore non ha chiaramente voluto lasciare nessun tipo di insegnamento. Non c’è una fine definitiva a questo racconto e forse è proprio questo che rende la lettura ancora più incisiva. Ci costringe a riflettere, ad immedesimarci nel protagonista e a “fantasticare” su ipotetiche nostre reazioni in simili circostanze. Queste 136 pagine, edite da Einaudi, lasciano un po’ di amaro in bocca ma sono un interessante punto di partenza per un dibattito sulla questione del razzismo, esplicito ma forse anche e soprattutto sistemico. Una questione tutt’altro che banale.
Ilaria Festa
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