Shoah e Memoria nell’arte. Tra qualche giorno, il 27 Gennaio, cade come ogni anno la ricorrenza della “Giornata della Memoria”. Per la Rubrica Arte di questa settimana, ci sembra quanto mai doveroso dedicare un focus alle rappresentazioni artistiche che in qualche modo sono anch’esse testimonianza viva dell’orrore di uno dei periodi più bui della storia. Vedremo insieme tre opere di tre artisti ebrei, sopravvissuti all’Olocausto.

L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”.

Primo Levi

Edith Birkin: “Ultimo respiro – Camera a gas”

Edith Birkin, L’Ultimo respiro - Camera a gas_web
Edith Birkin, L’Ultimo respiro – Camera a gas_web


La prima opera che vi proponiamo è di una pittrice originaria di Praga, Edith Birkin. Questa straordinaria artista, nasce in Repubblica Ceca nel 1927. Fu deportata nel ghetto di Łódź, in Polonia, nel 1941, insieme alla sua famiglia. Purtroppo i suoi genitori morirono dopo breve tempo. Tre anni dopo, nel 1944, fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz, dove lavorò in una fabbrica di munizioni. Nel gennaio 1945 sopravvisse ad una “marcia della morte” in mezzo alla neve verso il campo di Flossenburg, in Germania, e nel marzo dello stesso anno venne trasportata su un carro da bestiame a Bergen Belsen, dove poi fu liberata.

Negli anni Settanta comincia a studiare pittura e trova lavoro come insegnante. Inizia così a realizzare una lunga serie di opere, incentrate sulle memorie dell’Olocausto. I suoi dipinti raffigurano infatti le scene più tristi e terribili che lei stessa aveva vissuto. La marcia della morte, le persone come lei chiuse dentro ad un campo di concentramento, gli addii alle persone care, le torture. Opere che ripercorrono luoghi e situazioni che l’artista ha vissuto in prima persona e che sono testimonianze pittoriche di una sopravvissuta.

L’opera che abbiamo deciso di selezionare è “Ultimo respiro – Camera a gas”. L’opera raffigura a pieno la disperazione di una delle torture più brutali che il popolo ebraico subì quando era prigioniero dei nazisti. Con immensa drammaticità, sono raffigurate due donne, in uno stile astratto, che, distrutte, cercano di respirare con le loro bocche spalancate e gli occhi fissi. L’ultimo respiro prima di morire soffocate. Una scena tragica e piena di angoscia. Un dipinto reso ancora più brutale dai colori che l’artista utilizza. Attraverso le sfumature di viola e celeste viene ancor più accentuato il disperato gesto di quest’ultimo respiro. 

David Olère: “Il cibo dei morti per i vivi”

 David Olère, Il cibo dei morti per i vivi (autoritratto)_web
Olère, Il cibo dei morti per i vivi (autoritratto)_web

Altro artista, questa volta di professione, è David Olère. Nato  a Varsavia il 19 gennaio 1902, studia all’Accademia di Belle Arti. Vive in Germania per poi trasferirsi a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, nel 1923. Deportato ad Auschwitz nel 1943, fece parte del Sonderkommando, un corpo speciale formato da ebrei costretti a lavorare per i tedeschi. Olère disegnava illustrazioni, scriveva e decorava lettere per le SS. Questa sua condizione lo portò ad essere, un importante testimone non solo dell’Olocausto, ma anche di com’erano organizzati e costruiti i lager. I suoi disegni furono addirittura utilizzati nei processi ai nazisti, rivelando, per fare un esempio, come erano strutturate le camere a gas ed il loro funzionamento. Dopo la liberazione, avvenuta il 6 maggio 1945, continua a condurre la sua attività d’artista ed espone in Francia e negli Stati Uniti

I disegni realizzati tra il 1945 e il 1947 sono più di cinquanta. Le sue opere catturano la realtà bruta ed inumana, dei veri e propri racconti. “Il cibo dei morti per i vivi (autoritratto)”, realizzata durante la sua prigionia, è una delle opere di questo artista che con uno stile realistico, mette in scena le varie situazioni di cui era testimone diretto. Olère è spesso presente nelle sue opere, smunto, scavato, spettrale. Anche in questo autoritratto Olère si raffigura in primo piano, col suo numero identificativo sul braccio ripetuto anche in basso a destra del dipinto, dove di solito c’è  la firma dell’autore. La scena è amara: l’artista è chino a raccogliere il cibo abbandonato da chi è stato introdotto nelle camere a gas, per gettarlo nel campo delle donne ancora in vita. Sullo sfondo il lager e degli ebrei che spingono, sotto l’occhio vigile delle SS, un carro pieno di cadaveri. 

Josef Szajna: “Le nostre biografie”

Josef Szajna, Le nostre biografie_web
Josef Szajna, Le nostre biografie_web

Infine vi proponiamo uno dei lavori di Josef Szajna. Regista, scenografo e pittore polacco che durante l’occupazione della Polonia fu prigioniero di Auschwitz e Buchenwald. Gli anni della detenzione, non poterono che influenzare la sua arte. Durante la prigionia ad Auschwitz, Szajna realizzò disegni che sopravvissero alla distruzione e che costituiscono importanti memorie visive del campo di concentramento. Dopo la fine della guerra, Szajna frequenta l’Accademia di Belle Arti di Varsavia e continua ad occuparsi di Auschwitz e dell’Olocausto.

Nella sua opera “Le nostre biografie”, realizzata negli anni della prigionia, riassume in un certo senso l’anonimato della vittima. In essa vengono raffigurati quarantuno prigionieri con le loro uniformi. Tutti perfettamente uguali ed indistinguibili. Non hanno nessuna caratteristica che possa farli distinguere gli uni dagli altri. Sono quasi oggetti, immobili, proprio per ribadire quella umanità e dignità tolta loro dai nazisti che gli assegnarono dei numeri identificativi.

Ilaria Festa

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