Stasera in tv:”Oscure presenze a Cold Creek”, ogni casa ha un prezzo

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Di Redazione Metropolitan

Stasera in tv: Oscure presenze a Cold Creek (2003), thriller dalle suggestioni horror firmato da Mike Figgis (Via da Las Vegas, Timecode, Mr Jones). Una tradizionale famiglia di Manhattan, nevrotizzata dal traffico e divisa da ego e carrierismo, molla tutto e va a vivere in campagna; ma acquistare, come degli avvoltoi, una suntuosa proprietà, per tre soldi all’asta giudiziaria, non sarà privo di conseguenze. Sulla scia de Il promontorio della paura di Martin Scorsese, il perbenismo dei ricchi e infelici protagonisti è messo al confronto con la follia del villain; il quale, nella sua caricaturale esagerazione, non è però privo di una certa “giustizia sociale”. L’originale vena autoironica e autoriflessiva, alimentata dalla caricatura del padre di famiglia, documentarista “assetato di materiale”, non salva la sceneggiatura dalla prevedibilità; resta quindi un mancanza di suspence, nell’assenza di un vero mistero.

Cooper Tilson (Dennis Quaid), regista di documentari, vive a Manhattan con la moglie e donna d’affari Leah (Sharon Stone), nonché i due figli preadolescenti Kristen (Kristen Stewart) e Jesse (Ryan Wilson). Quando quest’ultimo viene quasi ucciso nel traffico, la famiglia molla la città e compra una suntuosa villa di campagna, ad un’asta giudiziaria. I Tilson sono in seguito approcciati dal precedente proprietario Dale Massie (Stephen Dorff), che li convince ad assumerlo per qualche lavoretto nella casa. L’uomo si rivela inquietante, aggressivo e chiaramente non contento che degli estranei abbiano occupato la dimora, appartenuta alla sua dinastia da generazioni; l’ambizioso Cooper ha poi deciso di girare un documentario proprio sulla storia della famiglia Massie; egli passa il tempo a rovistare tra foto ed oggetti personali dei precedenti abitanti, cosa che non fa che esacerbare il conflitto…

Stasera in tv: “Oscure presenze a Cold Creek”, ricostituire la famiglia

Cooper e Leah hanno una carriera, una famiglia ed un appartamento a Manhattan. La facciata di felicità nasconde qualche problema. Emblematica la scena iniziale; la moglie si alza alle quattro del mattino per un viaggio di affari e si dimentica di riprogrammare la sveglia per il marito. I due non sono solo scoordinati, ma letteralmente sintonizzati a velocità differenti. In maniera significativa, lei si alza molto prima di lui; la sua carriera di successo è rappresentata, letteralmente, dal “volo”, nella sequenza in cui la donna si trova in aereo. Il marito, invece, si sveglia in ritardo e finisce per essere bloccato dal traffico, emblema della sua fatica a progredire nel mestiere di documentarista. I suoi film, rivela del resto Leah al collega, sono chiaramente non commerciali. La donna non è completamente felice del loro rapporto, ed è tentata dalla possibilità di una scappatella con il compagno di lavoro.

L’incidente del figlio è l’episodio epifanico che li convince seduta stante a mollare tutto e ritrovare l’armonia familiare, vivendo in una casa di campagna. Quest’ultima rappresenta dunque la promessa di unità, incarnata anche dal valore simbolico di una dimora che ha ospitato generazioni di famiglie; essa tuttavia, si rivela, ironicamente, il contrario. Il nucleo che vi abitava, con una figlia maggiore all’incirca quattordicenne ed un figlio minore sui dieci anni, è completamente speculare ai Tilson e si è misteriosamente volatilizzato. Non il migliore dei presagi. L’identificazione tra i Tilson e i Massie, le cui tracce sono rappresentate da foto di famiglia ai tratti inquietanti e morbose filastrocche al tema di morte, è agevolata attraverso la figura del figlio minore Jesse. Egli indossa subito i vestiti del secondogenito Massie; si identifica inoltre, in maniera un po’ perturbante, con i giochi strani e un po’ aggressivi di quest’ultimo.

Stasera in tv: "Oscure presenze a Cold Creek"- Photo Credits: pluggedin.com
Stasera in tv: “Oscure presenze a Cold Creek”- Photo Credits: pluggedin.com

Protagonisti discutibili, le ragioni del “popolo”

Se la famiglia Tilson non è la quintessenza dell’unità, essa non è nemmeno in sintonia con il nuovo contesto sociale. Cosa c’è del resto da aspettarsi, quando degli “stranieri” newyorkesi comprano una casa-patrimonio storico per quattro soldi, approfittandosi della caduta in miseria dei precedenti proprietari? Non solo se ne impadroniscono, ma lucrano sulla vendita dei mobili. “Guardami, sono di New York” dice con arroganza Leah all’antiquario che le propone un prezzo basso. Che dire poi del marito, che si è tuffato sui cimeli e fotografie degli ex proprietari, come un avvoltoio in cerca di scoop? Su una vena simile al neonoir Il promontorio della paura, si dipinge una famiglia dalla moralità non integra, e che solo dopo aver pagato le conseguenze del proprio peccato, troverà la redenzione e l’armonia perduta.

La continuità con il thriller di Scorsese è del resto “dichiarata” attraverso la presenza di Juliette Lewis; nel ruolo di amante del cattivissimo e muscolosissimo Dale, ella è di nuovo sospesa tra innocenza e peccato, e costituisce la cartina di tornasole morale nel giudizio dei protagonisti. I Tilson si atteggiano a “colonialisti”, iscrivendosi ad una tradizione che vuole che le case infestate si ergano sui cimiteri violati degli Indiani. Il loro impossessamento è particolarmente offensivo, poiché non si limita alla casa, ma include ogni oggetto e fotografia, quasi vampirizzando la vita dei predecessori. Da questa prospettiva, la figura del documentarista, che si nutre del vissuto degli altri, è rappresentata con una vena autoriflessiva e ironica; soprattutto nella misura in cui cotanto disturbo è in ogni modo “fallimentare”, poichè destinato alla realizzazione di un film “indipendente”, di nicchia.

Un problema di tensione

Il questionamento morale dei protagonisti, nonché la vena riflessivamente critica sul mestiere del cinema, costituiscono una sorta di apertura su un intrigo che, altrimenti, procede senza sorprese. Un certo gusto del sovrannaturale, suggerito dall’uso delle plongée dominate da sinistri oggetti in primo piano, costruisce una serie di suggestioni,che non verranno tuttavia sfruttate. Stesso destino per l’uso del simbolismo “biblico”, nella figura dei serpenti, che si limita ad originare l’unica sequenza volutamente grottesca e divertente del film. Il potenziale evocato dalla presenza della casa e le possibili implicazioni horror è in qualche modo promesso, ma non messo in atto. D’altro canto, un principio di “economia di scrittura” e di legittima aspettativa dello spettatore, non vorrebbe che si scomodassero diavoli, fantasmi e forze oscure, dinanzi a quello che si rivelerà, spoiler alert, un semplice episodio criminale.

Si costruisce una serie di suggestioni che promettono un’evoluzione, o degenerazione psicologica dei componenti della famiglia; la quale, tuttavia, non avverrà mai, poiché i personaggi restano, di fatto, monolitici. L’attaccamento un po’ morboso del figlio Jesse agli oggetti dello speculare membro della “famiglia scomparsa”, non ingenera alcuna forma di “impossessamento” o turbamento; né alcuna sorta di divisione o conflitto, al di là di una superficiale storia di gelosia tra i coniugi, sembra scalfire la famiglia, innanzi alla paura. La metà dei suoi membri, infatti, opportunamente “scompare”, al momento dello scontro finale; forse questo risultava troppo difficile da gestire con quattro individui; in effetti, la presenza della metà dà dei risultati surreali, in termini di logicità dell’azione, e non ne diciamo di più. Stasera in tv: Oscure presenze a Cold Creek, su Rai 4, alle 21.20.

Sara Livrieri

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