Rilasciati ieri da un consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta gli Uber Files, dossier contenenti migliaia di file sull’operato della multinazionale dei trasporti privati alternativi. Tra questi anche documenti che testimonierebbero lobbying in associazione con il presidente francese Emmanuel Macron. Prove di molteplici tentativi di “giocare sporco” nel mercato, forzando la mano sugli esecutivi nazionali e tentando di affermarsi come leader monopolistico del settore. “Sono stati commessi errori e passi falsi, non creeremo scuse per comportamenti passati che chiaramente non sono in linea con i nostri valori attuali” secondo il CEO Dara Khosrowshahi. Spunta anche il nome dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che nega ogni coinvolgimento: “mai seguito personalmente” la questione trasporti.

Così Uber si sarebbe garantito il mercato dei trasporti alternativi: spuntano i file che mettono in cattiva luce la multinazionale e il presidente Macron

Dara Khosrowshahi, attuale CEO della multinazionale californiana Uber

Un consorzio internazionale di giornalisti, tra cui figurano anche esperti del “Guardian”, ha rilasciato ieri gli Uber Files, dossier contenente documenti (oltre 83 mila mail) che sarebbero la prova dietro l’operato non proprio trasparente tra Uber, società mediatiche e persino capi di stato nel periodo che va dal 2013 e 2017. Coinvolto anche l’allora ministro Emmanuel Macron, coinvolto nel 2015, stando ai documenti, in un’attività di lobbying. Centro dei messaggi incriminanti sarebbe un provvedimento contro Uber della procura di Marsiglia che avrebbe cambiato esito nel giro di una notte. “Me ne occuperò personalmente” si legge in un messaggio del presidente rivolto a Mark MacGann, manager responsabile delle politiche della multinazionale in Europa. Quel provvedimento annullava la sospensione di Uber per mancanza di licenze, obbligatorie per tassisti e autisti privati del paese. Di fatto, grazie a Macron, se ne permetteva l’operato. MacGann, in risposta, avrebbe ringraziato per la “buona cooperazione del suo ufficio.”

Ma non è una questione che riguarda solo Parigi. Tra 2014 e 2016 i lobbisti di Uber avrebbero avuto centinaia di incontri con leader di nazioni europee e non solo. L’Italia non ne sarebbe stata esclusa: “Operation Renzi”, questo il nome in codice utilizzato in Uber per indicare il tentativo di coinvolgimento dell’esecutivo del paese durante l’esecutivo renziano. L’adesso leader di Italia Viva però nega ogni ipotesi di coinvolgimento, adducendo di non aver “mai seguito personalmente” i trasporti e soprattutto di non aver mai interloquito con Uber o suoi rappresentanti, né aver mai approvato un provvedimento in suo favore.

Uber ha cambiato il modo di intendere il trasporto privato: resta da capire a beneficio di chi. La voce dei tassisti è spia di un problema sistemico, pubblico e privato.

Uber opera in 77 stati, a livello globale. L’introduzione di un servizio che tramite app potesse facilitare il trasporto senza rivolgersi alle tariffe di un taxi è stato accolto, come ci si poteva aspettare nell’età d’oro delle start-up digitali, come una boccata d’aria fresca. Se il “lato cliente” semplificava il rapporto con l’autista, il driver aveva i vantaggi e gli svantaggi (a pacchetto completo) della gig economy. Un salario variabile sulle prestazioni personali, completa mancanza di sistemi di previdenza sociale, supporto minimo da parte di Uber. Per altri quella della multinazionale è stata concorrenza sleale. I tassisti del mondo non hanno trovato giusto pagare per una licenza quando basta avere una patente per essere, praticamente, un corrispettivo, ma esentasse. Una situazione, questa, che non può risolversi con misure semplicistiche, ma che deve passare da un complesso bilanciamento d’interessi. O saremo condannati a uno sciopero a singhiozzo, ma permanente.

Alberto Alessi

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