Auschwitz, Guccini: la voce di un bambino racconta l’orrore dell’Olocausto

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Di Stella Grillo

Auschwitz è fra le più celebri canzoni di Francesco Guccini che, da sempre, ha inteso la musica non solo come passatempo ludico ma, sopratutto, come strumento di denuncia. Il tema dell’Olocausto raccontato dalla voce di un bambino morto nel medesimo campo di concentramento e, successivamente, una riflessione più che mai attuale: l’istinto primordiale e feroce presente negli uomini.

Auschwitz, Guccini: l’innocenza costretta alla follia umana

Auschwitz è, probabilmente, una delle canzoni più dure e cupe di Guccini. Il brano, scritto dal Maestrone di Pavana, si accreditò inizialmente a Lunero e Maurizio Vandelli, leader degli Equipe 84, poiché Guccini non era iscritto alla SIAE. La canzone uscì nel 1966 nel singolo Bang Bang/Auschwitz del noto gruppo di Modena. L’anno successivo, invece, Francesco Guccini la inserì nella raccolta Folk beat n.1 con il titolo La canzone del bambino nel vento (Auschwitz). Nella prima strofa del testo si intuisce come, il narratore della vicenda, sia un personaggio morto da bambino in una situazione poco usuale. Il termine ”morto” si ripete con una certa cadenza solenne nei primi due versi. Si crea così un’atmosfera cupa, nostalgica, sepolcrale e funerea che dona una certa inflessione ritmica a tutto il brano. La voce innocente del bambino deceduto in circostanze non convenzionali è ”spaccata”, ulteriormente, dall’espressione ”con altri cento”:

”Son morto con altri cento
Son morto ch’ero bambino
Passato per il camino
E adesso sono nel vento
Adesso sono nel vento.”

Qui, l’autore, va quasi a sottolineare l’impersonalità di un massacro, come se fosse qualcosa di ordinario, quasi, una consuetudine. Allo stesso tempo evidenzia l’orrore di una tragedia collettiva e universale. Adesso, quell’innocenza spenta da un camino e dalla follia umana, si propaga nel vento.

Il freddo, la neve e ”quel nome”: evocatore di sofferenze e dolore

La seconda strofa si apre sullo scenario principale. Guccini pone in rilievo quel nome evocatore di tragedie e sofferenze: Auschwitz. Tutta la strofa è dominata da un senso di angoscia che annuncia un terrore conclamato. Questo tono evocativo di angustia si fonde con un’immagine apparentemente serena: il freddo e la neve che, per ogni bambino, simboleggiano gioia ma che, in questo caso, sono un’ulteriore raffigurazione di sofferenza.

Il silenzio, la neve, l’ambiguità dei fumi del camino che risalgono il cielo invernale, tutto il paesaggio descritto, ricorda quiete scene di familiarità e placidità domestica. Il finale macabro e infelice è solo accennato senza sostare sui particolari. L’immagine di un fumo che sale in una fredda giornata invernale allude a persone scomparse celando un segreto agghiacciante. Ora, quelle persone mai menzionate direttamente, si ritrovano sparse nel vento gelido dell’inverno.

Auschwitz, Guccini: contrapposizione dei concetti di ”massa” e ”silenzio” e il crudo realismo

La terza strofa collega le due precedenti. Adesso, però, Francesco Guccini contrappone la massa al silenzio, creando un’antitesi che realizza nel testo una sensazione lugubre e di vuoto: le migliaia di persone rinchiuse in quel campo di concentramento non facevano rumore. Mortificati, spogliati della loro dignità e individualità, avviliti nel loro essere rispondevano con il silenzio della rassegnazione:

”Ad Auschwitz tante persone
Ma un solo grande silenzio.”

La potenza di questi dipinti di parole che la maestria di Guccini riesce a suscitare in chi ascolta, è fondamentale per una lettura emotiva del testo. Da un’atmosfera funerea e dolorosa si passa ai quesiti ingenui che il bimbo morto si pone: il tempo non ha rimosso i terribili ricordi del bambino. Anzi, addirittura, nella purezza che lo contraddistingue, si meraviglia come ancora non riesca a sorridere chiedendosi il perché di quelle morti atroci. Questo è il verso della coscienza: la prospettiva si allarga universalizzandosi totalmente alla tragedia.

Auschwitz, Guccini - Photo Credits: berlinomagazine.com
Auschwitz, Guccini – Photo Credits: berlinomagazine.com

La crudeltà umana, adesso, è consapevolezza dolente. Francesco Guccini, in questo caso, esprime la sua totale sfiducia nell’uomo cogliendolo nell’atto bestiale per eccellenza; il quesito ”Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello”, connesso alla consapevolezza dei milioni di uomini uccisi che ora, nel vento, propagano la loro voce, non fa altro che cogliere un crudo realismo sottolineato, maggiormente, dal verbo all’infinito ”uccidere”.

Evidenza di una crudeltà umana e universale che non impara dal passato

La strofa che precede quella di chiusura è un potente miscuglio emozionale. In Auschwitz Guccini la presenta, dapprima, come un potente grido di rabbia: disperato, inerme e rassegnato appura come ancora l’uomo – nonostante gli errori passati – non smetta di far guerra ai suoi fratelli. Il cannone tuona ancora, il sangue scorre: immagini inequivocabili di morte. L’autore è qui combattuto fra uno stato di arrendevolezza e rabbia; in un soliloquio riflessivo afferma, con amarezza, come ancora l’uomo non ne abbia abbastanza di mietere vittime innocenti:

”Ancora tuona il cannone
Ancora non è contento
Di sangue, la belva umana
E ancora ci porta il vento”.

L’appellativo che Guccini assegna all’umanità – ”la belva umana” – è una potente immagine evocativa di rabbia, ma anche, di finitezza e miserabilità dell’uomo nel suo essere. Le accuse e le domande sono rivolte all’umanità intera: tutta tristemente e ugualmente colpevole di ogni forma di scelleratezza verso un proprio simile. La gravità di queste azioni diviene più efferata, dal momento che gli uomini tutti, continuano a commettere nefandezze nonostante un passato di errori.

Auschwitz, Guccini: la speranza di una redenzione futura

L’ultima strofa pone ancora un quesito senza domanda: tuttavia, è un verso che, seppur il crudo realismo in cui il testo di Auschwitz è imbevuto, predispone a una certa apertura. Guccini è un pessimista, un realista: ma lascia un barlume di speranza all’uomo. Si auspica che, dopo tante sinistre nefandezze, possa ancora redimersi. Significativo il tempo verbale utilizzato: la strofa si apre con un accorato ”Io chiedo”, che non è un’accusa ma un’orazione, una preghiera accorata a cui fa seguito l’uso del futuro ”quando sarà” testimone di un’effettivo auspicio dell’autore affinché, un prossimo avvenire sia diverso e gli uomini imparino, finalmente:

”Io chiedo quando sarà
Che l’uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà”.

Il vento, elemento naturale presente nella quasi totalità del testo, non è leggiadro e spensierato come appare. Quella che soffia è una folata ancora irrequieta che sembra voler ammonire l’uomo, unico responsabile di tutti quei morti: i soffi impetuosi del gelido vento invernale gettano sull’umanità tutte le sue colpe. L’accusa è più dura, in questo caso, poiché proviene dalla voce innocente di un bimbo senza colpe, stroncato nella sua purezza. Suggestivo è il sapiente uso degli avverbi di tempo ”ancora” e ”adesso” e di luogo ”qui”; tali espressioni sottolineano come ciò di cui si discorre nel brano sia attuale, un tema su cui è necessaria ancora oggi una riflessione. La meditazione di una tragedia simile non reca, però, un cambiamento sostanziale: affinché ”il vento si posi”, è necessaria l’azione.

Stella Grillo

Foto in copertina: Auschwitz, Guccini – Photo Credits: faremusic.it