William Shakespeare, orgoglio…italiano? Tutte le teorie a riguardo

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Di Federica Checchia

Sin dai banchi di scuola, tutti abbiamo imparato a menadito la biografia di William Shakespeare. Nato il 23 aprile 1564 a Stratford-upon-Avon, morto lo stesso giorno e nello stesso luogo, nel 1616. Tra le due date, un’attività letteraria e teatrale di straordinaria importanza, simbolo dell’età elisabettiana e patrimonio culturale d’inestimabile valore. Poeta e drammaturgo instancabile, ha dato vita ad alcune delle storie più famose di tutti i tempi, da Hamlet a Macbeth, da A Midsummer Night’s Dream a Romeo and Juliet.

Il suo talento è, dunque, incontestabile. Ad essere ancora circondate da un alone d’incertezza sono, viceversa, le sue origini. Il Regno Unito rivendica orgogliosamente la natalità del Bardo, eppure, nel corso del tempo, sono apparse molteplici teorie, alcune più attendibili di altre, che mettono in dubbio la sua nazionalità, facendolo nascere, addirittura…in Italia.

William Shakespeare: Michelangelo Florio, da Messina all’Inghilterra

Murales a Londra, dedicato al poeta e drammaturgo William Shakespeare

Christopher Marlowe, Francis Bacon, il terzo Conte di Southampton, persino la regina Elizabeth I; sono solo alcuni dei possibili alter ego attribuiti allo scrittore. Attraverso vari approfondimenti, tuttavia, in molti si sono convinti che Shakespeare altri non sia che uno pseudonimo, scelto per mantenere l’anonimato dal siciliano Michelangelo Florio, realmente esistito, nato nel 1564 da Giovanni Florio e Guglielma Scrollalancia. Il nome materno sarebbe il primo indizio del suo legame con l’autore di The Tempest; Guglielma Scrollalancia è, in effetti, la traduzione letterale di William Shakespeare, declinata al femminile. Da giovanissimo, avrebbe scritto la commedia Tantu trafficu pi nenti, il cui titolo richiama fortemente Much Ado About Nothing (Molto Rumore per Nulla), famosa opera shakespeariana.

Accusato di eresia dal tribunale dell’Inquisizione e condannato a morte, sarebbe fuggito a Treviso per salvare la vita. Qui avrebbe incontrato una ragazza di nome Giulietta, di cui si sarebbe innamorato, ma, per divergenze con la famiglia, sarebbe stato costretto a separarsi da lei; dopo poco, la fanciulla sarebbe morta (questa vicenda vi ricorda qualcosa?). Approdato infine a Londra, avrebbe cambiato identità, assumendo il nome della madre e convertendolo nella lingua del posto.

Michelangelo diventa William, la vita a Londra

Ad alimentare questa controversia, vi sono degli indizi sparpagliati nella bibliografia dell’oscuro letterato. In Hamlet, infatti, sono presenti due personaggi, Rosencrantz e Guildenstern, due studenti danesi che frequentarono davvero l’Università di Padova con Florio. Molti dei drammi più celebri si svolgono proprio nella nostra penisola, da The Tragedy of Othello, the Moor of Venice a The Tragedy of Julius Caesar, fino a The Merchant of Venice. Proprio in quest’opera, vi sarebbero elementi della giurisdizione veneziana molto complessi, e viene difficile credere che un inglese dell’epoca potesse vantare tali conoscenze.

Sembra, inoltre, che Shakespeare frequentasse un club esclusivo nella capitale britannica; nei registri del locale, però, non vi è traccia del suo passaggio. Ad essere stato un effettivo frequentatore fu, invece, proprio Michelangelo Florio. Come se non bastasse, una scena di Antony and Cleopatra è ambientata a Messina, nella casa di Pompeo Magno, sito conosciuto quasi esclusivamente dagli autoctoni. In Molto Rumore per Nulla, qualcuno esclama «Mizzeca!», un vocabolo non proprio british.

Quando Shakespeare morì, infine, non venne dichiarato alcun lutto nazionale; una scelta singolare, data la notorietà del defunto, ma plausibile, qualora si trattasse di uno straniero. Pur con parecchi interrogativi, questa tesi trova un discreto riscontro tra gli appassionati, e la stessa Messina, cavalcando l’onda, ha conferito, nel 2011, la cittadinanza onoraria post mortem al genio della letteratura.

William Shakespeare e i Florio: la teoria su John

Meno fantasiosa e, forse proprio per questo più verosimile, la tesi che identificherebbe Shakespeare con John Florio, figlio di Michelangelo e traduttore di Montaigne e di Boccaccio, nonché segretario personale per quasi sedici anni della regina Anne. L’impressionante erudizione di John, merito anche dell’educazione paterna, gli avrebbe garantito la protezione da parte del Conte di Southampton, insieme a un giovane attore, un certo Will di Strafford. Le loro strade si sarebbero dunque incrociate o, per qualcuno, sovrapposte. Avvalorata dai giudizi di Mark Twain, Charles Dickens, Harry James e Sigmund Freud, si è fatta strada l’idea che i due abbiano collaborato per la stesura di tragedie, commedie e versi o che, addirittura, Will sia stato un prestanome per la penna di Florio.

Lessicologo, umanista raffinato, oltretutto italiano. In pratica, il candidato perfetto per essere il vero Shakespeare. Nel 1921, Clara Longworth Chambrun pubblica una biografia di John, in cui lo definisce “Apostolo del Rinascimento in Inghilterra all’epoca di Shakespeare”. Nel 1934 il libro di Frances Amelia Yates, “John Florio. The life of an Italian in Shakespeare’s England.”, accenna timidamente alla questione del rapporto di Florio e Shakespeare, promettendo di occuparsene in un libro a venire, che però non vedrà mai la luce.

Nei primi anni Duemila, un’inchiesta di The Guardian riapre il caso, ma un gran numero di ricercatori, esperti in materia e docenti universitari si dimostrano contrari a questa possibilità. In particolare, gli accademici nostrani non vedono di buon’occhio le congetture che uniscono il poeta al linguista, forse per timore di essere screditati dai loro colleghi oltremanica. Nonostante la copertura mediatica da parte della televisione pubblica (ricordiamo le indagini di Roberto Giacobbo, che è più volte tornato sull’argomento nel corso delle sue trasmissioni), non si è mai giunti a una vera risposta.

L’influenza di Florio sui testi shakespeariani

Ad essere sicura e comprovata, è invece l’influenza degli studi di Florio sul lavoro di Shakespeare. John ha coniato, per la lingua inglese, 1149 parole e molti neologismi sono finiti nel First Folio, la prima raccolta shakespeariana. Ben tre frasi dello specialista sono diventate tre titoli di opere di William. «It is «Labour lost to speak of love» si trasmuta in «Love’s Labour’s Lost»(Pene d’Amor Perdute, 1598). «Gran romore, e poca lana (much a doe about nothing)» viene reso in «Much Ado About Nothing» (Molto Rumore per Nulla,1600). «Tutto è bene, che riesce bene» si trasforma in «All’s Well That Ends Well»(Tutto è bene quel che finisce bene, 1623).

Frasi, proverbi e termini inizialmente rintracciabili in First Fruits, Second Fruits e negli altri scritti dell’italobritannico furono rielaborati dal Maestro. Di seguito, alcuni esempi.

Florio: All that glistreth is not gold (Second Fruits, Folio 32, 1591)

Shakespeare: All that glitters is not gold, golden tombs do dust enfold (‘Il mercante di Venezia’, Atto II, sc. 5, 1600)

Florio: Make of necessity virtue (Second Fruits, Folio 13, 1591).

Shakespeare: Make a virtue of necessity (‘I due gentiluomini di Verona’, Atto IV, sc. 2, 1623).

Florio: That is quickly done that is done well. (First Fruits, 1578)

Shakespeare: If ‘twere done when ‘tis done ‘twere well kwere done quickly (‘Macbeth’, Atto I, sc 7, 1623)

Le similarità mostrano quanto i due uomini di cultura fossero interconnessi, e quanto l’uno si sia reso utile all’altro. Leggenda o fatto storico, mito o realtà; difficilmente questa diatriba troverà un epilogo. Una cosa,però, è certa. Qualunque sia la sua provenienza, l’eredità artistica di William Shakespeare è un bene comune e, per fortuna, possiamo goderne tutti.

Federica Checchia

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