Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, all’importanza che la sua persona ha avuto per me. Forse, mi sono detta, forse ora sono abbastanza anziana, ne sono capace, forse ora saroÌ€ all’altezza di questo racconto. Forse, ora, eÌ€ arrivato il momento di dirgli grazie. Francesca Comencini, figlia del maestro della commedia all’italiana Luigi Comencini, ha tenuto per anni questa storia nel cassetto, indecisa sul da farsi. Fortunatamente, alla fine ha scelto di farsi coraggio e rendere omaggio a suo padre, e lo ha fatto nel linguaggio a loro comune, quello del Cinema.
Il tempo che ci vuole, presentato fuori concorso a Venezia 81 è il racconto di una vita, anzi due, unite da un legame di sangue e da una passione condivisa, che si snoda attraverso ricordi, dialoghi ancora accesi nella memoria e, naturalmente, set cinematografici. Set chiassosi, confusionari, pieni di comparse e addetti ai lavori; fabbrica di sogni da portare sul grande schermo, in questo caso Le avventure di Pinocchio, tra gli adattamenti più riusciti del famoso romanzo per ragazzi di Carlo Collodi. Un’opera intima, vera, reale e realista, l’autoanalisi profonda di un rapporto padre-figlia non scontato, e una delicata carezza a quello che per noi è un gigante della storia italiana, ma che, per Francesca Comencini, era semplicemente il papà .
Il tempo che ci vuole a Venezia 81: il momento giusto
Presenti alla conferenza stampa i produttori Simone Gattoni e Paolo Del Brocco, Francesca Comencini e i due interpreti principali, Romana Maggiora Vergano, la Marcella di C’è ancora domani, e Fabrizio Gifuni, prossimamente Nino Sarratore nel capitolo finale della serie L’Amica Geniale. Ad aprire le danze, ovviamente, colei che ha avuto l’idea di celebrare Luigi Comencini in una pellicola autobiografica. Le viene chiesto cosa sia accaduto e per quale motivo, secondo lei, questo sia il momento giusto per affrontare questo tema.
La regista non ha dubbi: «Dovevo avere il tempo giusto sia dal punto di vista cinematografico, avere mezzi e competenze necessarie per questo film, e anche del tempo personale. Quando c’è stato il lockdown c’era questo senso di angoscia generale, e quella per i cinema chiusi; sembrava potesse perdersi tutto. In quei giorni ho sentito la necessità di mettere per iscritto i miei ricordi. Dopo aver scritto la sceneggiatura ho voluto chiedere un consiglio ad una persona che io considero un Maestro, che è Marco Bellocchio. Lui l’ha letta, e dopo mi ha spronata a realizzarne un film, dandomi motivazione e fiducia, e scegliendo addirittura di produrlo in prima persona.».
Come Romana e Fabrizio sono diventati Francesca e Luigi
Il passo successivo, naturalmente, è stato la scelta del cast. Per Francesca Comencini «bisognava trovare attori per interpretar me e mio padre, una cosa non da poco. Per quanto riguarda Gifuni, il problema era che lui scegliesse me; lo conosco e ammiro da tanti anni, e quando mi ha detto di sì ho pensato che il film iniziasse a stare in piedi.». Selezionare Romana, invece, ha richiesto un impegno diverso. «Abbiamo fatto diversi casting», spiega la regista, «e, quando Romana ha fatto il provino aveva appena iniziato a girare il film di Paola Cortellesi. Io non la conoscevo, ma ho capito subito di essere stata fortunata. Non cercavo somiglianze fisiche, ma qualcuno che desse vita a quello che eravamo».
Portare sul grande schermo un personaggio come Luigi Comencini non è una responsabilità da poco, e Fabrizio Gifuni ne è consapevole: «Anche se sul copione c’era scritto solo “padre”, sapevo benissimo chi stessimo raccontando, ed era giusto prepararmi sulla voce e sul corpo di Comencini. Ad un certo punto, però, bisogna distaccarsi e fare un salto mortale; evocare fantasmi è un lavoro da stregone, non da attore. C’era pochissimo materiale su di lui, era un regista molto schivo. Aveva, però una straordinaria capacità d’ascolto ed empatia, l’ho scoperto guardando le interviste de I bambini e noi. Lui li lasciava parlare e li stava ad ascoltare davvero, per conoscerli e capirli, al punto che poi uno degli scugnizzi è diventato Lucignolo.».
Com’è stato, invece, per Romana Maggiora Vergano, calarsi nei panni della persona dietro la cinepresa? «Questa è stata un’occasione incredibile, di quelle che non capitano quasi mai. Io ero una fan di Francesca e, quando mi ha scelta, è subentrata la paura, perché la persona che mi stava dirigendo era la persona che dovevo interpretare. La paura, però, è calata subito; io mi aspettavo di dover convincere una regista che io fossi la persona giusta per interpretarla, e invece ho trovato una persona molto curiosa. Non cercava se stessa, ma delle cose nella mia personalità che risuonassero in lei.».
Il tempo che ci vuole porta Luigi Comencini a Venezia 81
«In questo film», riflette Francesca Comencini, «io gli ho disubbidito, creando un’opera autobiografica che avrebbe disapprovato. Però, in questo modo, siamo qui a parlare di lui, e ho la sensazione che anche mio padre sia qui con noi. Il cinema ti permette di attraversare il confine tra chi non c’è più e chi è ancora vivo, e io sono contenta di aver disobbedito.». Nel lungometraggio, Luigi Comencini afferma che i film «devono stare in piedi», un rimando a un cinema più antico ed artigianale. Il tempo che ci vuole, in questo senso, è un omaggio sì all’uomo Luigi, ma anche al regista Comencini e a tutta la Settima Arte. «Mio padre, di formazione, era un architetto, e lo “stare in piedi” aveva un senso per lui. Come una casa sta su se chi ci vive ci vive bene, così è per i film. Chi lo va a vedere, deve star bene per quell’oretta e mezza. »
Il punto di forza di Il tempo che ci vuole, per il produttore Simone Gattoni, è che si tratta di «un film con tematiche universali, come il rapporto tra un padre e una figlia, e il senso di soccorso verso chi sta male. Queste basi universali applicate sulla particolarità lo fanno sublimare, ma ci sono delle fondamenta valide per tutti.». Paolo Del Brocco è della stessa opinione: «I film devono emozionare e suscitare sentimenti in chiunque lo guardi. Il film parla della vita, e credo che sia fondamentale in questo periodo storico.».
Luigi Comencini, l’eterno fanciullo
La filmografia di Luigi Comencini è varia e spazia da commedie storiche come Pane, amore e fantasia o Il compagno Don Camillo, al suo capolavoro assoluto, Le avventure di Pinocchio, sul quale il film di Francesca Comencini si sofferma a lungo. «Tutto è ispirato dall’idea della fiaba. Questa bambina si trova nell’età in cui legge le fiabe e le vede realizzare dal padre con Pinocchio. L’immaginazione è una chiave di salvezza per entrambi. Lui era davvero felice di girare Pinocchio. Chi lo conosce sa quanto fosse un uomo serio e cupo, ma lì sprigionava gioia per la realizzazione di un sogno che aveva da anni. Voleva creare un universo fiabesco italiano, a modo suo. Conosceva benissimo il mestiere del cinema, ma era fortemente in connessione con il se stesso bambino. Il suo lato fiabesco è stato presente fino alla fine».
Un breve accenno alle musiche: «C’è una splendida colonna sonora composta da Massimo Capogrosso, che ha collaborato con Marco Bellocchio. Poi ho selezionato canzoni che hanno accompagnato le stagioni della mia vita, da Stasera mi butto a Neil Young, il primo disco comprato da ragazzina!». Infine, prima di concedersi ai fotografi, un commosso ringraziamento alla sorella Paola, presente in sala, e alle altre due, la regista Cristina e l’attrice Eleonora: «Ringrazio Paola, che ha avuto la generosità di realizzare queste meravigliose scenografie, e anche le mie sorelle Cristina ed Eleonora, che mi hanno supportata e hanno capito l’importanza di fare questo film per noi, per mio padre. ».
Federica Checchia
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